Manifesto 24 giugno 2001

Attac non è una colla
Un successo la prima assemblea in versione italiana. Cassen e Agnoletto guardano al controvertice con qualche orgoglio, e senza lasciarsi intimorire. Benni fa il bipartisan
GUGLIELMO RAGOZZINO - INVIATO A BOLOGNA

Attac, a Bologna. La prima assemblea nazionale di Attac Italia è un successo. Molte le persone sedute per terra quando si comincia; e sì che l'aula ha 500 posti. Il successo è soprattutto nella certezza, manifesta nei presenti, di fare la cosa giusta; la certezza è valutabile nel consenso che riceve la linea "pacifica, civile" ma insieme decisa a difendere - a Genova - i diritti, quelli del popolo di Porto Alegre e quelli di tutti i cittadini del mondo.
La scelta di chi apre l'assemblea è di parlare poco, in tanti; e così l'assemblea può ascoltare almeno tre interventi sullo stato di quel particolare e vasto movimento che Attac intende interpretare, come si avvicina a Genova e con quale spirito. I tre interventi sono di Bernard Cassen - il promotore del movimento Attac France che tenuto a battesimo molte altre sezioni di Attac d'Europa - di Vittorio Agnoletto che riferisce dei rapporti con il potere e di Stefano Benni che - dice - parla in veste bipartisan cioè senza scegliere tra il registro serio e l'umoristico, una riflessione di alta moralità politica, divertente e spiritosa.
Cassen è orgoglioso del cammino fatto; dall'avvio nel 1998 all'assemblea di Saint Denis è passato solo un anno. Un altro anno o poco più ed ecco il Forum mondiale di Porto Alegre dove il movimento ha trovato la conferma di giuste intuizioni. I movimenti Attac esistono in tutti i paesi d'Europa, ciascuno con la propria specificità, un grande corale movimento di educazione popolare. Nessuno vuole sostituirsi a partiti e sindacati "di cui rispettiamo il perimetro d'azione" ma nessuno può limitare gli interessi e le attività di Attac. Cassen racconta il suo incontro con il sub comandante: "Marcos mi ha detto che non appena potrà togliersi il passamontagna cercherà di mettere insieme un Attac anche in Messico". Infine fa il racconto del movimento, tra la vittoria del liberismo trionfante e Genova, anzi annucia un Porto Alegre II (30 gennaio-4 febbraio 2002) cui il governatore Olivio Dutra dello stato del Rio Grande do Sul, presente con un video, invita tutti.
Anche se è capace di chiamare l'applauso, Agnoletto mostra di non essere un vero oratore, perché altrimenti avrebbe tenuto l'argomento decisivo per la sparata finale. Dice: "Non ci devono essere segreti o zone d'ombra tra noi o differenze d'informazione. Ho ricevuto due telefonate: dal capo della polizia e dal ministero degli interni". Il primo chiedeva un incontro, a Genova, il secondo a Roma. "Se non fosse arrivata la seconda chiamata, non avremmo dato seguito alla prima". E l'oratore non professionale ha già spiegato la sostanza: andremo con una delegazione ampia, rappresentativa di tutti. "Non per trattare", ma per far sapere che non accettiamo la zona gialla.
La zona gialla è una trappola, uno spazio deputato agli incidenti. Continua Agnoletto: "Chiediamo che sia eliminato ogni vincolo al movimento delle persone, dentro e fuori Genova". Alcuni prevedono che il trattato di Schengen che ha aperto le frontiere interne dell'Unione europea sarà sospeso; se non dall'Italia, dai paesi confinanti, intollerabile ipocrisia. Frontiere aperte, invece: nessun blocco ai trasporti, stradali, ferroviari, aerei, marittimi, nessuna stazione chiusa. "Questi sono diritti di libertà, costituzionali, non negoziabili, perciò non disponibili in una trattativa. Abbiamo anche noi del social Forum una riunione a Genova. Non ci chiuderete nel Levante", vogliamo spazi veri, pubblici, aperti, fruibili. Il 20 luglio andremo intorno alla linea rossa; alcuni cercheranno anche di entrare". E Agnoletto conclude all'assemblea di Attac e al popolo di Porto Alegre, come lo chiama lui, invece di popolo di Seattle, meritandosi un grande applauso: "Se il governo ci chiama per dirci le sue decisioni, la riunione non dura neppure 5 secondi". Agnoletto esagera, ma quando ci vuole, ci vuole.
Benni finge davvero di essere indeciso, non tanto su cosa dire ma sulle parole per dirlo. C'è un'ombra criminale su di noi - inizia - me ne ero accorto da molti anni anche se non sapevo che si chiamasse globalizzazione. Anni lontani. C'era Kissiger, Attac era una colla e si leggeva l'Uomo a una dimensione di Marcuse. Al cinema, i film americani di serie b parlavano di alieni venuti dallo spazio. Per instaurare il loro dominio, il governo dei terribili bacelloni, si presentavano così: "piccoli, pelati, fardati". Una delle risposte dei terrestri era ed è quella di dialogare con i conquistatori, che continuano a ripetere parole incomprensibili, intraducibili: "Nasdaq, nasdaq". Come i più anziani sanno, la sconfitta degli invasori non si otteneva in battaglia; i bacelloni avevano raggi verdi che riuscivano a far fuori le armi dei nostri. Si vinceva invece per contagio. I bacelloni erano sconfitti dal raffreddore, dai piccoli virus. Virus tremendi per i mostri dello spazio esterno. Virus insopportabili, mortali (metaforicamente s'intende) sono modi di essere e impegni che noi qui, noi a Genova ("anch'io sarò a Genova") possiamo già assumere. "Li dico tutti in fila, ma ognuno aggiunga i suoi": durata, integrità, continuità, attenzione, solidarietà, responsabilità. A Genova bisogna crescere e tenere. Si vince non per gli scudi di plastica (a proposito; "qualcuno dovrà spiegare se sono davvero gli scudi di plastica a stabilire la violenza") ma se il movimento continua, più forte, dopo; se saremo cresciuti, dopo, allora avremo vinto: in ogni caso, vincere e perdere sono termini da prendere con autoironia. Non bisogna cadere nella trappola dell'evento; il fatto vero, importante è: dobbiamo durare.
Benni si fa più serio. "Chi rischia davvero sono i centri sociali. Sono loro ad aver datto politica in questi anni, "hanno tirato fuori il meglio da una generazione" che tutti hanno abbandonato. E racconta, con parole affettuose e ironiche, con quale ospitale disinteresse è accolto, come chiunque, in un centro sociale. Quando Benni sta per finire il sistema microfono-altoparlante collassa. E lui commenta: lo sapevo che era meglio non nominarlo il terribile Kissinger.