Corriere della sera 8 luglio 2001

Tute bianche, ma anche qualche nostalgico

UN’AVANGUARDIA E MOLTI REDUCI

di ANGELO PANEBIANCO

Fra i frutti avvelenati della globalizzazione, secondo i suoi critici, ci sarebbe l’omologazione culturale, la tendenza dei diversi Paesi a perdere radici e specificità culturali. Ma proprio le reazioni delle società coinvolte nei conflitti scatenati dal movimento anti-globalizzazione lasciano pensare che le tradizioni nazionali tuttora contino assai. E’ a causa di differenti tradizioni che la protesta è presumibilmente destinata a produrre effetti diversi nei vari Paesi in cui si manifesta, dagli Stati Uniti alla Svezia, all’Italia. Da noi, l’imminenza del G8 e la preparazione della protesta hanno riattivato quell’anticapitalismo e quell’antiamericanismo che, fino all’89 e alla fine della guerra fredda, erano stati elementi portanti delle convinzioni ideologiche di una parte assai ampia, ancorché minoritaria, dei nostri connazionali, e che da allora, salvo qualche sporadica ed effimera eruzione, si erano conservati sotto traccia. Le tradizioni nazionali contano a tal punto che nel linguaggio di diversi contestatori italiani del G8 è perfino riaffiorata la polemica, di mussoliniana memoria, contro le «demoplutocrazie». In nessun altro Paese occidentale, probabilmente, il popolo di Seattle, potrà mai trovare altrettante estese simpatie di quelle che sta ora trovando in Italia. C’è la Chiesa cattolica, innanzitutto. Giustamente preoccupata per le povertà, impegnata, come sempre, nella sua opera di carità. Una Chiesa che appare però divisa. C’è una parte (sperabilmente maggioritaria) attenta a non demonizzare né l’Occidente né il mercato, attenta a capire cosa si possa concretamente fare per quelle parti del mondo (come l’Africa subsahariana) dove non si vedono segni di miglioramenti economici, e che al G8 chiedono riforme, correzioni, interventi realistici. C’è però anche una frangia, che non appare quantitativamente irrilevante, la quale, condanna della violenza a parte, ha adottato, se ne renda conto o no, un atteggiamento di convergenza con le posizioni (soggettivamente) «rivoluzionarie», anticapitalistiche e antioccidentali del grosso del movimento anti-globalizzazione.
Ci sono poi i reduci del comunismo. Per i quali Genova e ciò che vi accade intorno sono l’occasione di una grande «rimpatriata».
Ammutolirono nel 1989. Da allora, hanno coltivato, per lo più solo in privato, entro ristrette cerchie di amici, l’ideologia di un tempo. Il movimento antiglobalizzazione appare loro come una magnifica occasione per riproporre le idee di una vita. I trenta (o giù di lì) registi «di sinistra», molti dei quali con un passato militante, che andranno a Genova a filmare le imprese dei contestatori, sono rappresentativi di quella parte del Paese. Del resto, basta leggere l’intervista rilasciata da Gillo Pontecorvo (che andrà a Genova) a Lietta Tornabuoni su La Stampa di ieri. Un documento interessante: plauso per il popolo di Seattle, non una parola sugli orrori prodotti nel XX secolo dalla ideologia cui lo stesso Pontecorvo fino a ieri aderiva. E una lunga filippica sui guasti dell’egemonia americana in generale e sul cinema europeo in particolare. Che altro pensare se non: rieccoli?
Tuttavia, quelli che credono di poter rilanciare, in Occidente, tramite il popolo di Seattle, l’antioccidentalismo di un tempo, probabilmente, si illudono. Gli anni della gioventù non tornano per nessuno. Nel XX secolo l’antioccidentalismo (occidentale) fu alimentato dal rapporto con una grande aggregazione di potenza, l’Unione Sovietica. Scomparsa la quale quell’antioccidentalismo non ha più avuto, e presumibilmente non avrà mai più, un centro politico-ideologico cui appoggiarsi.
In Italia, però, le conseguenze di questo ritorno di fiamma potrebbero essere più serie. A una parte di noi italiani continua a piacere l’idea che tutto, al fondo, si riduca a una lotta fra «demoplutocrazie» e nazioni «proletarie».