La Repubblica 3 luglio 2001 Rolex e baraccopoli dove l'oro è per pochi MAURIZIO RICCI «Déme dos», me ne dia due. Era il soprannome dei turisti latinoamericani, abituati a fare il loro giro di compere a Miami. Bello il Rolex, me ne dia due. Carina la videocamera, ne prendo due. Adesso, i «déme dos» si sono rarefatti. Fra il 1990 e il 1998, nonostante il boom dell'economia mondiale, in 50 paesi il reddito pro capite non è salito, è sceso. E molti di quei paesi stanno a sud del Rio Grande. Tempo per l'austerità, allora? Niente affatto: i «déme dos», adesso, si vedono meno, perché fanno lo shopping a casa loro. A Caracas, nel Venezuela che fiumi di petrolio non riescono a far decollare, da meno di due anni, il nuovo centro della vita cittadina è il Sambil, un centro commerciale con 450 negozi, due cinema, un acquario da 115 mila litri e un Mac Donald's, dove un Big Mac costa l'equivalente di mezza giornata di paga, per il lavoratore medio. Le statistiche dicono che, se si prende come parametro la ricchezza prodotta ogni anno in un singolo paese e la si divide per il numero di abitanti, la distanza fra paesi poveri e paesi ricchi continua ad aumentare. Ma le medie, come quella del reddito pro capite, ingannano. La statistica va letta nel senso che i poveri dei paesi poveri diventano sempre più poveri (almeno in rapporto agli abitanti dei paesi sviluppati, come quelli riuniti nell'Ocse). Ma, contemporaneamente, anche nei paesi poveri ci sono i ricchi. Spesso, straricchi. A volte, sempre più ricchi. Come regola generale, anzi, più un paese è povero, maggiore è la distanza fra chi mangia un paio di Big Mac per merenda e chi va avanti con un pugno di tapioca al giorno. Gli Stati Uniti non sono affatto un paese egualitario. E, negli ultimi anni, i miliardari si sono moltiplicati come funghi. Qui, comunque, il 10% più ricco della popolazione incassa il 30,5% del reddito nazionale. All'altro lato della scala, il 20% più povero deve accontentarsi del 5,2% della ricchezza prodotta. Ma in Brasile, i 15 milioni di ricchi imbottiscono i loro portafogli con il 47,6% della ricchezza nazionale. I 60 milioni di brasiliani che stanno dentro il 40% di più poveri si ritrovano con l'8%. La stessa situazione, in cui il 10% più ricco della popolazione intercetta quasi la metà del reddito nazionale, si ritrova in Colombia, in Cile, in Paraguay, in Sierra Leone, nel Mali, in Sudafrica e nello Zimbabwe. Il record, comunque, secondo l'Onu, è nel bacino del fiume Congo, dove i ricchi della Repubblica Centrafricana si appropriano del 47,7% del reddito nazionale annuo. Che non è certo alto: come sanno benissimo quel 20% di più poveri a cui ne resta il 2. Sul crinale delle disuguaglianze di reddito, nei paesi poveri, si gioca una partita molto più importante delle opzioni di consumo, tapioca contro bistecca. Ad Accra, nel Ghana, il terzo degli abitanti che vive nei quartieri bene consuma il triplo dell'acqua dei quartieri poveri. Va peggio a San Paolo, in Brasile, dove un 9% consuma cinque volte l'acqua a disposizione del 41% più povero. In Ecuador, il 75% dei poveri non ha acqua corrente e, probabilmente, non li consola sapere che anche il 12% dei ricchi deve accontentarsi del pozzo in giardino. Non sono (soltanto) differenze radicate nella storia. Nei paesi poveri, il mondo dei ricchi non è fatto solo di latifondisti, speculatori e quello dei poveri di disoccupati disperati. In Cile, il 75% dei lavoratori si deve spartire il 4% del totale dei salari pagati nel paese. Il 6% con le buste paga più pingui assorbe, da solo, il 30% del totale. Su questo mondo di squilibri e disuguaglianze, avvertono Martin Lundberg e Boris Milanovic, due studiosi della Banca Mondiale, la globalizzazione, l'apertura e l'integrazione dei mercati, non scende come un manto benefico. I dati dicono che, più un paese si apre ai commerci, meno cresce il reddito del 40% più povero della popolazione. Il punto chiave è che, contemporaneamente, più un paese apre le proprie frontiere al mercato internazionale, più cresce il reddito dell'altro 60% della popolazione. Prima o poi, dicono gli ottimisti, questo aumento di benessere, con l'allargamento delle classi medie, si trasferirà anche ai poveri. Ma Lundberg e Milanovic ribattono che i dati non permettono di capire se, e in quanto tempo, questo potrà avvenire. Quel 40% potrebbe anche rimanere prigioniero della palude di una povertà permanente. La stessa Banca Mondiale si preoccupa di precisare che, se l'aumento degli squilibri è un fatto in molti paesi, il varo di riforme (lotta alla corruzione, trasparenza negli appalti, nuovi regimi fiscali) fa registrare una diffusione più equilibrata dei benefici della globalizzazione. «Può anche essere possibile - osservano asciutti Lundberg e Milanovic - convincere le forze antiglobalizzazione dei benefici di una maggiore integrazione internazionale, ma questo richiede che si discuta più sulla base di fatti, che dell'ideologia di una globalizzazione buona comunque» . |