Corriere della sera 3 luglio 2001 La guerra del contadino Bové: «Il mondo non è merce» Sarà
a Genova, con lui la Francia si è riscoperta anti-americana: «McDonald’s uccide la
diversità culturale»
SEGUE DALLA PRIMA
Sostiene Serge Latouche,
professore all’università Paris-Sud: «Domina una concezione del mondo fondata sul
liberalismo economico più rigido. È un fondamentalismo che si allarga a tutto e
distrugge la cultura. Anonima megamacchina tecno-economica, l’Occidente pialla ogni
cosa e, ai suoi margini, sostituisce una ricchezza antica a un vuoto tragico». Bové non
si spinge a tanto, fermandosi a quella che chiama la «malbouffe», un concetto che per
lui comincia dagli hamburger e spazia verso gli organismi geneticamente modificati (Ogm),
la mucca pazza, gli scandali dei polli alla diossina e delle lattine di Coca-Cola, ha
abbastanza da fare. «Sono un sindacalista-contadino - dice -. E tale voglio rimanere».
È un’etichetta riduttiva.
Figlio di professori universitari (suo padre è entrato anche all’Accademia delle
Scienze francese), è cresciuto fra la California e Parigi. Nel ’68, a 15 anni, è
stato arrestato la prima volta durante una manifestazione antimilitarista. Ha frequentato
ambienti anarchici e trotzkisti che l’hanno portato, nel 1973, a una grande
manifestazione nel Larzac, dove l’esercito voleva allargare una base. È lì che è
diventato contadino: con una dozzina d’altri studenti s’è dedicato alla
ricostruzione della Blaquière, una fattoria in rovina. Adesso ne ha una sua, dove alleva
pecore da latte per la produzione del formaggio Roquefort (una specie di Gorgonzola).
Non la cura più lui, preso com’è dalla battaglia contro la globalizzazione con la
parola d’ordine «Il mondo non è una merce» (che è anche il titolo del suo libro,
di cui l’anno scorso sono state vendute in Francia più di 100mila copie, ora
tradotto in una dozzina di lingue, italiano compreso). Se ne occupa uno stipendiato della
sua organizzazione sindacale, la Confédération paysanne. Lui è diventato una star
mediatica, anche grazie all’eccellente padronanza dell’inglese, e gira il mondo
(a Seattle riuscì a contrabbandare 200 chili di Roquefort, il prodotto che, assieme allo
champagne, vanta la più vecchia denominazione d’origine controllata, 1925), si fa
arrestare in Cisgiordania, sarà a Genova.
Ovunque, ripete il suo atto d’accusa come un mantra: «McDonald’s vuol dire
eliminazione dei contadini e loro sostituzione con allevamenti bovini di mediocre
qualità, un solo tipo di patate e tre qualità di insalata per i loro ristoranti di tutto
il mondo». Ha l’efficacia della semplicità: l’immagine di una mostruosa
multinazionale che pianifica la produzione planetaria di un unico tipo di tubero per
trasformarlo in patatine fritte (tutte tagliate allo stesso modo, ci si immagina) è
portentosa. Ma è vera? Non esattamente. McDonald’s Francia compra le sue patate
dagli agricoltori della regione Nord-Pas-de-Calais e le sue insalate in Bretagna. La sua
carne viene da 4.500 allevamenti sparsi ai quattro angoli del Paese. E gli Ogm? E la carne
agli ormoni? «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà», risponde Denis Hennequin,
amministratore delegato della McDonald’s Francia. «Nell’agricoltura francese
noi investiamo un migliaio di miliardi di lire l’anno. Nei nostri ristoranti serviamo
prodotti francesi. E, qui da noi, la legge proibisce la carne agli ormoni e gli Ogm».
Negli altri Paesi è uguale.
«Un’azienda globale non può che avere articolazioni locali», dice Jack Greenberg,
il boss della McDonald’s. In Corea del Sud, sotto l’arco giallo, si trovano
hamburger bulgogi, la versione indigena, e in Giappone sono accompagnati da una salsa
teriyaki.
Perfino in quello che appare come il più universale dei prodotti, basta scartare la
confezione per accorgersi che ci sono differenze.
Contrariamente a quel che sostiene Theodore Levitt, un guru di marketing della Harvard
Business School, non esiste ancora una formula unica che garantisca il successo in ogni
parte del mondo (perfino la Coca-Cola non è ovunque il più venduto soft-drink). Ma i
miti hanno una formidabile forza evocativa. Così per Bové diventa facile identificare
McDonald’s come il simbolo della pretesa di omologare il gusto del mondo all’«american
way of life». E per Giles Jacob, il responsabile del Festival del cinema di Cannes, è
altrettanto lapalissiano sostenere che Hollywood è un cavallo di Troia attraverso il
quale l’America cerca di intossicare il mondo con le sue idee, i suoi prodotti, le
sue forme di intrattenimento: «Agli Stati Uniti non interessa solo esportare i loro film.
Vogliono anche esportare un modello culturale».
È un’accusa antica. Negli anni ’50 circolava in Francia una vignetta in cui una
provocante bottiglia di Coca-Cola seduceva un francese medio, allontanandolo dalla sua
legittima moglie, una bottiglia di Beaujolais. E prima ancora Georges Clemenceau, uno dei
maggiori uomini politici a cavallo fra XIX e XX secolo, lamentava che l’America fosse
«il solo Paese nella storia passato miracolosamente e direttamente dalla barbarie alla
decadenza senza l’abituale intervallo di civiltà». Da sempre, ma soprattutto nel
periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, il dibattito sulla globalizzazione
culturale è un surrogato della polemica sull’America e sul valore (meglio: sul
danno) della sua influenza.
In un mondo in cui "Titanic" ha superato "Les enfants du Paradis"
nella classifica dei film più visti in Francia e in cui Saddam Hussein sceglie come
colonna sonora per il suo 64° compleanno «My Way», la canzone di Frank Sinatra, è solo
naturale interrogarsi sull’imperialismo culturale americano. Fra il 1989 e il 1998,
la percentuale dei film hollywoodiani sul mercato è passata dal 69 all’87 in Belgio,
dal 65 al 95 in Germania, dal 56 al 64 in Francia e dal 63 al 65 in Italia. Più in
generale, Edgar Montiel, rappresentante dell’Unesco in Paraguay, e Patricio Dobrée,
professore alla Universidad Nacional de Asuncion, calcolano che fra il ’75 e il
’91 i Paesi sviluppati, il 23 per cento della popolazione mondiale, abbiano esportato
il 68,5 dei beni culturali mentre la quota di quelli in via di sviluppo, il 77 per cento
della popolazione mondiale, sia stata appena del 31,5. E mentre il mercato occupato dai
film stranieri negli Stati Uniti non supera un misero 3 per cento, Hollywood realizza la
metà dei suoi incassi nel mondo, in netta crescita rispetto al 30 per cento del 1980.
Tuttavia, non è chiaro quanto Hollywood sia americana. Da Charlie Chaplin ad Arnold
Schwarzenegger, passando per Alfred Hitchcock e Anthony Quinn, molti di quelli che l’hanno
fatta diventare quel che è sono immigrati. Attorno agli studios vive un numero così
grande di attori, sceneggiatori, tecnici e costumisti britannici che sono state fondate
diverse squadre di cricket. Tre delle maggiori case di produzione (Columbia-Tri Star, Fox
e Universal) sono controllate da capitale straniero. E, soprattutto, Hollywood affronta
temi con i quali si possa facilmente identificare il maggior numero di spettatori
possibile, indipendentemente dalla nazionalità d’origine. Sostengono John
Micklethwait e Adrian Wooldridge nel libro "2A Future Perfect": «Non c’è
nulla di particolarmente americano in una nave che si schianta contro un iceberg o in un
asteroide che minaccia di obliterare la vita sulla Terra».
Anche un critico severo dell’industria culturale statunitense come Herbert Schiller,
professore di comunicazione all’Università di California-San Diego, riconosce che
«l’egemonia americana sul mercato mondiale è oggi meno spinta di 25 anni fa».
Montiel e Dobrée, i due paraguayani, hanno parole dure contro l’imperialismo
culturale Usa: «Ha trasformato la creazione culturale in produzione mercantile». Però
sono costretti ad ammettere che «il processo non è unidirezionale dal centro alla
periferia: 25 milioni di latinos hanno fatto cambiare la cultura americana». Come
spiegare altrimenti fenomeni come Jennifer Lopez o Ricky Martin? Ma, nel campo della
musica, c’è di più. Sette dei 10 album più popolari della storia sono di gruppi
britannici. Il rock francese, rigorosamente interno fino a Johnny Hallyday, ha
attraversato le frontiere con gli Air e i Daft Punk. In Germania bande locali hanno il 48
per cento del mercato (il terzo del mondo dopo Usa e Giappone).
Perfino l’Islanda ha una rock star planetaria, Bjork. Mtv, il canale musicale, ha
palinsesti diversi per i differenti mercati, tutti con una enfasi particolare sulle
specificità locali.
Niente è meno certo di un’altra cosa che viene da dare per scontata: il dominio dei
prodotti americani nelle televisioni mondiali. Jeremy Tunstall ha demolito la tesi dell’«imperialismo
televisivo», dimostrando che la predominanza di importazioni Usa in America Latina è in
calo continuo dagli anni ’60. John Sinclair identifica almeno quattro centri di
produzione dominanti e non tradizionali: il Messico e il Brasile per il Sud America, Hong
Kong e Taiwan per l’Asia orientale, l’Egitto per il Mondo arabo e l’India
per il subcontinente e parti dell’Africa.
Jack Lang, all’epoca ministro della Cultura francese, definì nel 1983 la serie
Dallas come «il simbolo dell’imperialismo culturale americano». Ien Ang ha studiato
il suo successo fra il pubblico di diversi Paesi, «dal punto di vista di un’intellettuale
e una femminista, quali io sono». La sua tesi è che si tratta di un fenomeno complesso,
senza una causa dominante, ma basato soprattutto sulla sua struttura narrativa
melodrammatica. Conclude: «Non esiste una connessione necessaria con il potere della
cultura americana o i valori del capitalismo consumistico». Ma ancora più rilevante è
che, nel 1998, in nessuno dei maggiori mercati tv europei una produzione americana sia
stata fra i 10 programmi più visti. E a ER, Medici in prima linea (che pure è di ottima
qualità) gli italiani preferiscono le inchieste del commissario Montalbano, i francesi
quelle di Navarro e gli inglesi quelle di Morse.
Se poi si considera che due ragazzi di Londra hanno reinventato la commedia musicale, che
l’inventore del format del Grande Fratello (qualsiasi cosa se ne pensi) è olandese,
che l’ultima febbre da delirio infantile è partita dal Giappone con i Pokémon, il
quadro di un unico mondo ferocemente ingabbiato dall’american way of life e dai suoi
cavalli di Troia culturali mostra più di una crepa. La faccenda è meno complottistica e
più lineare. Come ha detto un autore francese di discreto successo: «Se la gente va a
vedere quello che scrivo, è perché probabilmente è roba buona. Se non ci va, è perché
probabilmente non lo è». Ma forse, oggi, Voltaire non si iscriverebbe alla
Confédération paysanne di José Bové. E neppure mangerebbe hamburger. Anche se troppi
(pro o anti-globalizzazione) lo vogliono piatto, il mondo è ancora rotondo.
( 3 - Continua
Le precedenti puntate sono state pubblicate martedì 19
e lunedì 25 giugno)
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