La Repubblica 29 giugno 2001

"Povertà e difesa dell'ambiente imponiamo l'agenda ai Grandi"

Il Dalai Lama: per forzarli lecita anche un po' di violenza
A Trento per un premio, il capo dei buddisti si schiera con il fronte antiglobalizzazione
l'intervista

RENATA PISU


trento - Il Dalai Lama è come se fosse di casa tra questi monti. Ride indicando col dito gli affreschi della Sala Grande del Castello del Buonconsiglio, putti nudi che si rincorrono. Fa ridere tutti quando ricorda che i cinesi lo considerano un bugiardo, uno che va raccontando menzogne sul Tibet da oltre trent'anni. Dice: lasciamo perdere il fatto che io sia o meno un bugiardo, ma se la comunità internazionale mi crede, che significa? Che siete tutti degli stupidi ingenui? Ride ed è, la sua, la risata del saggio, al di là del male ma non del bene che, per lui, non è cupa tetraggine. Ride anche quando dice che prova una certa invidia per l'autonomia del Trentino che ieri lo ha onorato con il Premio della Solidarietà Alpina che si conferisce soltanto ai montanari veri.
Commenta: «L'avessimo noi tibetani una simile autonomia nella libertà».
Non ride quando scendiamo la ripida scala che scese Cesare Battisti per essere fucilato assieme a Damiani e Filzi proprio laggiù, nel cortile, dove si levano dei cippi. Sono martiri sfruttati dalla storia, dalla memoria di parte, gli dico, ora i loro nomi sono soltanto degli indirizzi, strade e piazze delle nostre città. E lui: «Siamo tutti sempre usati, ma fossi anch'io sfruttato così... Magari vi fosse un giorno a Pechino una strada con il mio nome, via Quattordicesimo Dalai Lama».
Non ride però quando affrontiamo l'argomento della globalizzazione.
Lei chiede per il Tibet una vera autonomia, ma come si concilia questa richiesta con il fatto che il nostro mondo tenda a essere unico, omogeneizzato al punto che si cancellano tutte le differenze?
«Se globalizzazione significa che si cancellano delle abitudini, per esempio alimentari, a me va benissimo, lo trovo naturale. Da noi i nomadi mangiavano soltanto carne di Yak, ora hanno imparato a nutrirsi di verdure, di vegetali. Vogliono andare al cinema, guardare la televisione? Che lo facciano pure, se li diverte. L'importante è rimanere se stessi nel profondo, se si cambia in superficie poco conta. In Svizzera i nostri monaci mangiano e vestono come gli svizzeri ma restano fedeli alla propria identità interiore. Io penso che in questo senso la globalizzazione sia un allargamento degli orizzonti, un fenomeno che non si può arrestare».
Ma non la vede come un attentato al mantenimento delle autonomie nel senso più vasto?
«Intendiamoci bene. La globalizzazione gestita dai poteri finanziari delle multinazionali e delle superpotenze, o da due o tre grandi famiglie, è un vero pericolo, un flagello che distrugge le economie locali e, di conseguenza, gli spiriti, le culture. Contro questa globalizzazione dobbiamo lottare, non ho dubbi, perché non possiamo accettare un'economia aggressiva».
Ora gli otto potenti del mondo si stanno per incontrare in Italia. Lei che ne pensa di questo vertice?
«Penso che sia importante che s'incontrino e che si parlino. Ma bisogna vedere di cosa parlano perché io non sono contrario al dialogo tra i ricchi ma ritengo che i ricchi debbano affrontare nella loro agenda argomenti che siano davvero globali come l'impoverimento dei paesi del Sud del mondo, la difesa dell'ambiente. Per il nostro Tibet l'ecologia è di importanza fondamentale, per esempio. Ma lo è per tutti, tutto è collegato, il pianeta è uno. Se non vogliono affrontare questi argomenti, allora è bene che li si costringa, che li si richiami alla realtà».
Come li si può costringere? Con quali metodi?
«Ma con le manifestazioni, è evidente, manifestazioni pacifiche, preferibilmente. È triste quello che è successo in Svezia, quegli scontri così violenti con le forze dell'ordine, quel ragazzo moribondo, quei feriti... Ma questo non significa che non si debba scendere in piazza».
Contro cosa, contro chi?
«Non contro il vertice dei ricchi, dei G8, che si parlino pure, ma contro il loro modo di affrontare le vere questioni che loro però non considerano essere le vere questioni. E allora dobbiamo forzarli, farli ragionare. Con metodi pacifici, certo, ma se non la vogliono intendere, anche con un po' di violenza. Le manifestazioni nascono sempre, in via di principio, all'insegna della non violenza. Ma poi bisogna vedere come si evolvono e di chi è la colpa se degenerano».
Sempre dei manifestanti?
«Non credo sia così. Vede, il buddismo può insegnare qualcosa all'Occidente che di sua scienza ne ha tanta, tanta da vendere anche a noi. Però voi occidentali siete portati a considerare sempre che un determinato effetto dipenda da una determinata causa, che vi sia una relazione diretta e strettissima. Così semplificate troppo la realtà che a noi appare invece molto più complessa, le cause sono molteplici e varie, così pure gli effetti... La violenza, per esempio, di quante e quali cause può essere effetto? E a sua volta di quali effetti può essere causa?».
Così lei sembra dire che tutto è relativo... giustificabile.
«Relativo sì, nel senso che ogni evento, ogni fenomeno è in relazione con mille, centomila altri. Giustificabile anche, ma non vuol dire che quello che si giustifica sia il giusto. La ruota gira, mi capisce? Non è soltanto una metafora, è la sostanza di quelle che noi chiamiamo le apparenze».
Il Dalai Lama ora ride di nuovo, ride di gusto. Il fatto che ci sia un Tibet nel cyberspazio non lo sconvolge, anche se c'è davvero. Come c'è un portale che ci svela la nostra prossima reincarnazione.
«Sono apparenze, ma queste davvero non hanno sostanza» commenta il premio Nobel per la pace, Serpente Velenoso e Bugiardo per i cinesi, alleato spirituale del popolo di Seattle. «Alleato io? Ma sì, ditelo pure, se volete noi religiosi tibetani siamo sempre stati poco inclini a interessarci delle cose di questo mondo. Forse dovremmo, in questo, andare a scuola dai cristiani, da quelli bravi e onesti voglio dire che sono sempre impegnati nella lotta per la giustizia sociale. Dovremmo impegnarci di più anche noi, anch'io personalmente».