La Repubblica 10 luglio 2001

La voce del Papa per i dannati della terra

di PIETRO SCOPPOLA


L'APPELLO di Wojtyla ai grandi del G8 perché ascoltino il grido dei poveri è così intenso e drammatico da porsi oltre i confini del tradizionale magistero dei papi.
Per trovare qualcosa di analogo, in età contemporanea, penso si debba risalire alla allocuzione di Benedetto XV sulla "inutile strage" negli anni della prima guerra mondiale.

Come allora un grande e inascoltato pontefice dava voce alla disperazione di milioni di uomini condannati a vivere nel fango delle trincee per uccidersi, oggi Giovanni Paolo II dà voce, come ha scritto su queste pagine il premio Nobel Rigoberta Menchù, a "un popolo disperso nel mondo che ovunque non ha voce".
Non vi sono novità travolgenti nel contenuto di quanto il Papa afferma: l'idea che i beni della terra hanno una destinazione universale, in quanto sono al servizio della vita e dello sviluppo di tutti gli uomini, è ben radicata nell'insegnamento della Chiesa da oltre un secolo. Ma l'appello, tanto più intenso, ancora una volta, per il contrasto con la vistosa fragilità dell'uomo che lo ha lanciato, è oggi un potente avallo ed una mobilitazione spontanea che ha travalicato ogni frontiera ideologica e che sta ridando a milioni di giovani il senso della necessità e della importanza centrale della politica nella vita degli uomini. Perché questo è il senso del messaggio: i processi di globalizzazione, che sono un fatto, non possono diventare una ideologia e non possono esser abbandonati allo spontaneismo del mercato ma hanno bisogno di una guida politica; hanno bisogno che si faccia qualcosa di nuovo e di diverso dal passato. "Prendere coscienza e dare voce alla protesta – ha scritto ancora la Menchù - è importante, ma è necessario un lavoro permanente per proporre soluzioni, disegnare modelli: le manifestazioni non devono restare fine a se stesse".
Così insomma l'universalismo cattolico, ma si può ben dire in questo caso cristiano, si schiera all'avanguardia in una sfida storica fondamentale e si pone come elemento critico del processo di globalizzazione perché non sia abbandonato alle sue dinamiche spontanee. Non serve molto polemizzare con chi, come Comunione e Liberazione, sembra volersi dissociare da questa mobilitazione spontanea che ha coinvolto frati e suore, esponenti dell'associazionismo e del volontariato in maniera massiccia e li ha portati a fianco di movimenti dalle più diverse ispirazioni per uno stesso obiettivo: si tornerebbe solo su questa via alle malinconie della politica nostrana.
Val la pena di gettare lo sguardo più lontano. Verso il passato anzitutto. Sembra francamente una forzatura storica quella di voler stabilire un rapporto fra universalismo cristiano e globalizzazione rimproverando al primo di aver imposto ai popoli colonizzati i suoi modelli. L'idea ebraicocristiana di una paternità di Dio che si estende a tutti gli uomini e di una conseguente fraternità universale fra tutti gli uomini, è radicalmente critica di ogni situazione storica di asservimento di un popolo o di un solo uomo ad un altro uomo o a un sistema economico. Radicalmente critica anche se contraddetta dagli uomini che avrebbero dovuto incarnarla e portata avanti talvolta in polemica con la Chiesa. Sappiamo tutti che in nome dell'universalismo cristiano si sono commesse grandi atrocità: conversioni di massa imposte con la forza, civiltà e religioni non cristiane cancellate.
I radicali francesi della Terza repubblica teorizzavano che l'anticlericalismo non poteva considerarsi merce di esportazione tanto era considerata preziosa l'opera dei missionari come avamposti della colonizzazione africana.
Ma sappiamo anche che queste deviazioni hanno trovato nei principi stessi dell'universalismo cristiano, ad opera di credenti e non credenti, la spinta al loro superamento: sappiamo, per far solo un esempio, che l'idea della missione avamposto della colonizzazione è stata combattuta e cancellata dalla Chiesa agli inizi del XX secolo, prima ancora che prendessero avvio i processi di decolonizzazione e che il principio del rispetto delle culture indigene è diventato il cardine della presenza cristiana nei paesi del Terzo mondo. Voglio dire insomma che non si può avvicinare quello che è deformazione storica e negazione dei valori cristiani e che ha dato luogo a quel clamoroso "mea culpa" del Papa in occasione del giubileo, con quello che è espressione organica di una ideologia. Ed è appunto l'ideologia della globalizzazione l'oggetto della contestazione.
Tornado al presente occorre urgentemente ripensare alla luce delle fratture che si determinano oggi nella opinione pubblica di fronte ai problemi della globalizzazione le tanto discusse distinzioni fra destra e sinistra: è evidente che quando una società nel suo insieme prende coscienza che la maggior parte della ricchezza mondiale è nelle mani di poche migliaia di uomini e che una metà dell'umanità vive (e muore) con uno o due dollari al giorno, quando una società come la nostra prende coscienza di essere decisamente, nel suo insieme, dalla parte dei ricchi, "essere di sinistra" diventa altra cosa rispetto a quello che è stato fino a ieri. Una democrazia che diventi specchio e garanzia di interessi costituiti non potrà entusiasmare le giovani generazioni e spingerle ad una partecipazione attiva.
Il grido del Papa si proietta verso il futuro: un mondo così, con questa assurda distribuzione della ricchezza, con un uso delle risorse che non garantisce la vivibilità del pianeta alle future generazioni, non può andare, non ha futuro. Quella del Papa è una denuncia morale; la Chiesa non ha ricette politiche o economiche; ma la chiamata in causa delle responsabilità della politica è violenta e ineludibile.