La Repubblica 1 luglio 2001
Quei fiori velenosi
LE IDEE
di JOAQUIN ESTEFANÍA
LA violenza può porre fine al movimento sulla globalizzazione, che è una delle migliori
speranze della politica di questi ultimi tempi. Il movimento era riuscito a imporre i
problemi reali della globalizzazione: il suo carattere geografico parziale, lo sviluppo
sostenibile, le disuguaglianze, ecc. Mai si era tanto parlato di queste questioni, almeno
tanto quanto si parla di mercati liberalizzati, di aggiustamenti macroeconomici, di
sacrifici permanenti, di deregulation. Purtroppo, la violenza le ha emarginate nuovamente
e i leader politici discutono ora su come garantire la sicurezza dei propri incontri e su
come evitare gli scontri.
Invece di polemizzare con i capi di Governo, con i ministri dell'Economia o quelli degli
affari Esteri, con i tecnici del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) o con quelli della
Banca Mondiale, il ruolo da protagonista passa nuovamente ai ministri dell'Interno, ai
capi della polizia. Il ministro dell'Interno tedesco, Otto Schilly, propone una
sospensione temporanea del Trattato di Schengen che permette di attraversare liberamente
le frontiere dei vari paesi della Ue , per evitare la presenza degli agitatori. e Aznar si
aggrega deliziato a questa iniziativa per evitare incidenti nel primo semestre del 2002,
quando la Spagna assumerà la presidenza europea.
I politici dell'establishment balbettano di oscuri finanziamenti del movimento, di
tattiche organizzate di guerriglia urbana e kale borroka multinazionale; i globofobici
accusano la polizia di provocare atti di violenza per oscurare i loro veri fini. Il
terreno del gioco si è spostato. È una marcia indietro molto significativa dell'agenda
sulla globalizzazione e sui suoi difetti. Susan George, una degli intellettuali del
movimento (autrice di libri come Il rapporto Lugano e Il boomerang del debito) è stata a
Göteborg e, tramite Internet, ha condannato gli atti di vandalismo con i seguenti
argomenti:
Fanno inevitabilmente il gioco dell'avversario, anche quando la polizia è responsabile
dell'inizio degli scontri; i media e i politici non parlano d'altro che di violenza; le
idee, le ragioni, le proposte restano nascoste.
Chiunque pensi che spaccando vetrine e attaccando la polizia minaccia il
capitalismo', non ragiona politicamente. È un imbecille.
Non si può costruire un movimento ampio e popolare sulla base della violenza; la gente
non andrà alle manifestazioni né ai seminari di studio.
Non è democratico. Ci sono dei gruppi che non assistono mai ai lavori preparatori, che
non contribuiscono in alcun modo nella pratica politica quotidiana, ma che si presentano
alle manifestazioni come fiori velenosi per rompere qualsiasi accordo che sia stato
negoziato dagli altri.
Si insulta coloro che rifiutano e condannano la violenza tacciandoli di riformisti; ma non
è per niente rivoluzionario dividere il movimento sociale e rifiutare i potenziali
alleati, non è per niente rivoluzionario opporsi alle misure parziali (tassa Tobin, tassa
di base di cittadinanza) aspettando il grande giorno dell'assalto al Palazzo d'Inverno.
Ci sono almeno cinque categorie di proposte in rapporto alla globalizzazione, con tutto il
manicheismo insito in una classificazione di questo tipo, che invece richiederebbe delle
sfumature.
La prima sono gli agiografi della globalizzazione felice, coloro che sostengono che tutto
quello che essa comporta sia buono; tra questi si contano i neoliberali senza esitazioni e
tutti i pennivendoli che in questi giorni scrivono sul movimento sulla globalizzazione
senza capire proprio di che si tratta, insultando, accusando sempre i suoi componenti di
povertà intellettuale a causa dalla propria povertà intellettuale, che è ciò che li ha
condotto a trovarsi al margine della destra radicale , impedendo la presentazione di
alternative al riparo della violenza.
Seguono coloro che questionano soltanto i più palesi difetti della globalizzazione, come
per esempio il lavoro e lo sfruttamento infantile, ma che evitano di affrontare o
nascondono altri difetti cruciali che la globalizzazione genera, come la crescente
disuguaglianza, o l'assenza in molte zone del mondo dei benefici della stessa.
La terza categoria vede quelli che sostengono un altro tipo di globalizzazione che
dovrebbe accompagnare l'unica realmente esistente, quella finanziaria; sono coloro che
pretendono la globalizzazione dei diritti economici e sociali, dei diritti umani,
dell'ecologia e che essa sia governata da rappresentati liberamente eletti dai cittadini,
non dai mercati; si oppongono a questa globalizzazione ma non al sistema né all'economia
di mercato. Per questo, non si trovano a loro agio dentro alla qualifica di globofobici.
Sono contro la globalizzazione senza semafori, senza regole del gioco, che produce
perdenti con i quali nessuno sa che fare.
Nella quarta categoria stanno coloro che criticano la globalizzazione, ma che si oppongono
radicalmente anche al sistema. Ma sono pacifici, vogliono vincere la battaglia nel campo
delle idee e della alternative.
E infine ci sono i violenti, chiaramente minoritari, ma che vogliono appropriarsi
dell'identità del movimento e che possono distruggerlo o ricacciarlo nella marginalità
delle avanguardie, fuori dal quadro di riferimento centrale della nostra epoca, dove si
colloca la globalizzazione. Non hanno imparato dalla storia e dalle conseguenze dispotiche
della violenza organizzata.
Il movimento antiglobalizzazione, così eterogeneo e anche così antinomico, è la
dimostrazione pratica della globalizzazione dal basso, a fronte della globalizzazione
dall'alto, che è quella alla quale abbiamo assistito finora. Non deve soltanto dire:
il male è fuori', ma esercitare la critica delle sue debolezze e degli eccessi
violenti delle sue minoranze.
Se non ci fosse un movimento di questo tipo, con tutte le sue contraddizioni, occorrerebbe
inventarlo. In pochi anni ha conseguito alcuni obiettivi dai quali traggono beneficio
tutti i cittadini: porre all'ordine del giorno la causa dei diritti economici e sociali,
che spesso non sono nemmeno conosciuti e che sono rimasti arretrati rispetto ai diritti
civili, dell'ambiente o di genere (l'80% della popolazione mondiale non alcun tipo di
protezione sociale); mostrare gli aspetti sporchi della globalizzazione, che prima non
erano menzionati o che restavano nascosti o relegati nei discorsi; trasmettere la giusta
tensione alla sinistra che sta nel sistema quella che questo movimento ha
sostituito in molte mobilitazioni e nelle strade facendole assumere alcuni dei suoi
punti di vista; ottenere una autocritica da organismi come il Fmi, la Banca Mondiale e
l'Organizzazione Mondiale del Commercio, a favore di una democratizzazione degli stessi,
di una maggiore trasparenza dei loro interventi, ecc. Anche se una parte di questa
autocritica è stata un po' precipitosa: lacrime di coccodrillo.
La parte centrale di questo movimento è a favore di una globalizzazione globale. È
globofobica di una globalizzazione esclusivamente finanziaria, nonché mutilata: una buona
parte del mondo che vorrebbe entrare nei circuiti della globalizzazione non ci riesce.
I globofobici hanno ricevuto recentemente sostegni inaspettati. Ne suo "Il rapporto
Lugano", Susan George descrive la preoccupazione di alcune persone per gli abusi
della globalizzazione economica: Alan Greenspan è turbato dall'esuberanza irrazionale del
mercato; George Soros crede che troppo capitalismo uccida il capitalismo (dopo aver fatto
una fortuna con la speculazione); Joseph Stiglitz, ex capo economista e vicepresidente
della Banca Mondiale, è ossessionato delle ripercussioni e dalla severità dei programmi
di aggiustamento strutturale nei paesi poveri; il direttore del settore economia globale
della Morgan Stanley è preoccupato dall'imminente cruda guerra tra capitale e mano
d'opera, ecc. Eppure, niente sembrava collegare tutto ciò, almeno apertamente, fino a
questo momento.
Il movimento ha avuto la virtù di ricordarci che una cosa è costatare l'aumento degli
scambi nel mondo e la crescita delle nuove tecnologie, e un'altra è dire che
costituiscono un sistema mondiale autoregolato e che deve, pertanto, sfuggire al controllo
politico. La prima è una descrizione esatta, la seconda, un'ideologia.
(traduzione di Guiomar Parada)
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