La Repubblica 8 luglio 2001

Il mondo che cancella gli indigeni
di RIGOBERTA MENCHÙ


NEGLI ultimi vent' anni sono stata in tutti i paesi dove ci sono popoli indigeni. E dovunque ho riscontrato la stessa realtà: nessuno vuole darci voce. Tra gli indios ci sono tecnici, funzionari, scienziati che sono emarginati nei loro paesi.
A chi si riunirà per il G8, ai paesi ricchi, noi chiediamo per prima cosa di dare opportunità ai popoli di partecipare, di parlare, di esprimere le proprie idee.
C'è un popolo disperso nel mondo che, ovunque, non ha voce. Lo dicono le notizie che arrivano alla rete delle iniziative indigene per la pace, di cui mi occupo da tempo.
Ci sono troppi che vogliono parlare al nostro posto: magari sono degli antropologi, pensano di sapere tutto dei popoli indigeni: ma non è vero, e anche questa, in fondo, è una forma di razzismo.

Si discute da vent'anni di una dichiarazione comune dei popoli indigeni all'Onu: non si è ancora arrivati a niente. E troppo spesso, mentre a New York o altrove si discuteva, chiusi nelle sale e negli uffici, in quei paesi, come il mio Guatemala, si consumava il genocidio, la deportazione, la distruzione di un popolo. Anche l'Europa ha i suoi indigeni e anche loro non hanno voce. Conosco i Sami, conosco gli Inuit: lottano per la loro identità, ma chi li ascolta? Herri Maga è un Sami, vive in Norvegia, cerca di difendere l'identità del popolo lappone: lo ha mai ascoltato qualcuno?
Noi chiediamo soprattutto rispetto. Rispetto per i dirigenti dei movimenti indigeni, uomini o donne che siano; persone che sono riuscite a trionfare sulle difficoltà che hanno incontrato, che sono riuscite a sopravvivere a genocidi ed ecocidi.
Sono stata poco tempo fa in Canada: i Cree, gli indigeni di quelle terre, sono stati spogliati di tutto dalle compagnie multinazionali, che tagliano i boschi. Ce ne sono otto in attività in questo periodo, noi abbiamo potuto vedere ciò che sta facendo solo una di queste compagnie: in un anno ha tagliato boschi per un'estensione che va oltre il milione e duecentomila metri quadri, e ci vorranno due o trecento anni perché quella terra riprenda il suo ritmo naturale. Noi stiamo chiedendo rispetto per la natura, che per i popoli indigeni è un luogo sacro: perché è l'insieme della natura ad essere sacro, per noi e per la nostra identità.
Chiediamo rispetto per i diritti umani. Perché la globalizzazione non è mai arrivata ad occuparsene: si occupa di economia, soprattutto, di politica, ma non guarda alla diffusione dei diritti delle persone. Io vengo da un continente a cui non manca nulla, è profondamente ricco, profondamente diseguale, e la maggior parte della popolazione non avrà nulla anche dallo sfruttamento delle materie prime.
E dove c'è povertà, è sempre forte il rischio delle dittature.
Per questo chiediamo spazi di democrazia, di dialogo. Perché si deve pensare che altrimenti possono tornare le dittature, quando non si dà voce ai problemi di chi vive in quelle terre.
Nei prossimi giorni ritornerò in Guatemala, il mio paese, malgrado le minacce. Ma torno nel mio paese correndo gli stessi rischi che corrono tutti i guatemaltechi e le organizzazioni dei diritti umani. Non avrei voluto tornare in Guatemala, in un momento come questo, ma è mio dovere morale e politico farlo: perché gli ex dittatori che ora stanno in Parlamento stanno abolendo cinque articoli fondamentali della Costituzione, dalla libertà di esprimersi e di organizzarsi, alle garanzie in caso di detenzione o di arresto immotivato. Se non ci sono questi diritti, chiunque può di nuovo essere arrestato senza motivo.
E ai paesi che si riuniranno per il G8 a Genova, una delle città in cui sono stata in questi giorni, ma anche alle multinazionali e alle potenze più ricche chiedo che prendano posizione contro l'impunità di chi agisce in questa maniera.
Troppo spesso i paesi ricchi e potenti danno la colpa all'Onu di non saper risolvere le crisi locali, quando loro stessi impediscono alle Nazioni Unite di mettere fine a queste dittature. Nessun paese che ha interessi economici e geopolitici di grande respiro può sfuggire all'obbligo di occuparsi dei diritti umani. Così come il G8 può essere l'occasione per occuparsi dei diritti delle persone più deboli, dei bambini di strada, dei migranti.
Non sarò alle manifestazioni di Genova, come non sono stata a Seattle o a Québec: prendere coscienza e dare voce alla protesta è importante, ma è necessario un lavoro permanente per proporre soluzioni, disegnare modelli: le manifestazioni non devono restare fini a se stesse.
Ad esempio, si chiede la cancellazione del debito: sono favorevole alla cancellazione totale, ma chiedo anche che ci sia un controllo internazionale su come verranno utilizzati i soldi che non vengono restituiti alla Banca Mondiale. Perché c'è il rischio che governi totalitari di paesi poveri continuino a rubare, a vivere nella corruzione: e non è detto che i soldi non usati per pagare il debito vadano allo sviluppo.
Ringrazio il presidente Ciampi di avermi invitata in Italia e all'incontro di personalità indigene e impegnate nei diritti fondamentali. Non potrò esserci, ma gli scriverò una lettera.
Una dichiarazione che interessa non solo Rigoberta Menchù o il Guatemala, ma tutti i popoli indigeni. Che chiedono voce e rispetto, a viso aperto: per il Chiapas è stata importante la rivoluzione zapatista, ma gli indios hanno diritto di essere ascoltati a viso aperto, senza dover ricorrere alle marce e ai passamontagna.
(L'autrice è Premio Nobel per la Pace)