Corriere della sera 7 luglio 2001
LONTANI E SOLIDALI

Essendoci liberati della maggior parte dei limiti spazio-temporali che confinavano il potenziale delle nostre azioni al territorio che potevamo sorvegliare, non possiamo sottrarre noi stessi, né chi è condizionato dal nostro comportamento, alla rete globale della dipendenza reciproca. Nulla può essere fatto per invertire la tendenza verso la globalizzazione. Mezzo secolo fa Karl Jaspers poteva ancora distinguere nettamente tra «colpevolezza morale» (il rimorso che proviamo nel ferire altri esseri umani per ciò che abbiamo o non abbiamo fatto) e «colpevolezza metafisica» (il senso di colpa che proviamo quando un essere umano subisce il male, anche se il male non è in alcun modo legato al nostro comportamento). Tale distinzione ha perso significato nel mondo della globalizzazione. Ogni qual volta l’umanità è colpita dall’oltraggio, dalla miseria e dal dolore, non possiamo sentirci sicuri della nostra innocenza morale.
La globalità di capitale, finanza e commercio - le forze che determinano la gamma di scelte e la proficuità dell’azione umana - non è stata accompagnata da un’adeguata progressione nelle risorse con cui l’umanità controlla tali forze. In particolare, questa globalità non è stata accompagnata da un’ascesa altrettanto veloce del controllo democratico. Si direbbe che l’autorità sia «volata via» dalle istituzioni che nel corso della storia hanno esercitato il controllo democratico sugli usi e gli abusi del potere all’interno degli Stati nazionali moderni. La globalizzazione nella sua forma attuale si manifesta nella sottrazione di autorità agli Stati nazionali e (per il momento) nell’assenza di un efficace sostituto. Una trasformazione tanto stupefacente è stata attuata dai protagonisti dell’economia già una volta, benché ovviamente su scala più modesta. Max Weber osservò che l’atto di nascita del capitalismo moderno fu la separazione del mondo degli affari dal mondo domestico. Inteso, quest’ultimo, come la densa rete di diritti e doveri comuni vigenti nelle comunità paesane e cittadine, nelle parrocchie o nelle corporazioni artigiane, rete nella quale le famiglie e il loro vicinato avevano vissuto strettamente avvolti.
Con questa separazione (meglio definita, per ricordare l’antica allegoria del celebre Menenio Agrippa, «secessione») il mondo degli affari si avventurò in una vera e propria terra di frontiera, una virtuale terra di nessuno, libera da tutte le preoccupazioni morali e dai vincoli legali ancora esistenti e pronta ad essere subordinata al codice di comportamento proprio degli affari. Come sappiamo, questa extraterritorialità morale senza precedenti dell’attività economica produsse a suo tempo l’avanzata del potenziale industriale e la conseguente crescita della ricchezza. Sappiamo anche, tuttavia, che per la quasi totalità del XIX secolo la stessa extraterritorialità si espresse sotto forma di grande miseria umana, di povertà e di un’impressionante polarizzazione delle possibilità e degli standard di vita. Infine, sappiamo che a un certo punto gli emergenti Stati moderni reclamarono i propri diritti sulla terra di nessuno che il mondo degli affari considerava sua esclusiva proprietà.
La globalizzazione può essere definita come la «secessione modello secondo». Ancora una volta, il mondo degli affari è riuscito a districarsi dai vincoli del mondo domestico, benché questa volta la casa da abbandonare sia il simbolo di un «mondo domestico immaginato», circoscritto e protetto dai poteri economici, militari e culturali dello Stato nazionale, su cui domina la sovranità politica. Ancora una volta il mondo degli affari ha acquisito una «regione extraterritoriale», uno spazio proprio, che può percorrere liberamente.
Quasi due secoli fa, nel mezzo della prima secessione, Karl Marx accusava di «utopismo» quei difensori di una società più giusta ed equa che speravano di raggiungere il proprio obiettivo fermando l’ascesa del capitalismo. Non c’era modo di tornare indietro. La questione non è come invertire il corso della storia, ma come combattere la sua contaminazione con la miseria umana e come incanalare il suo corso verso una distribuzione più equa dei benefici che apporta.
C’è un’altra cosa da ricordare. Qualunque forma assuma il supposto controllo globale sulle forze globali, non può essere una replica ingigantita delle istituzioni democratiche che si sono sviluppate nei primi due secoli della Storia moderna. Un responso efficace alla globalizzazione può essere solo globale. E il destino di un responso globale dipende dall’emergere e dal rafforzarsi di un’arena politica globale (da non confondersi con internazionale o meglio interstatale). E’ un’arena di questo tipo che oggi manca più visibilmente. Gli esistenti giocatori globali sembrano non avere alcuna intenzione di allestirla. Ai loro apparenti avversari mancano tanto l’abilità necessaria quanto le risorse. Si rendono necessarie nuove forze per ristabilire e rinvigorire un forum veramente globale.
(Traduzione di Nicoletta Boero)
Sul tema sono intervenuti il cardinale Piovanelli (21 giugno), il Nobel per la Pace Ramos-Horta (26 giugno), il presidente e amministratore delegato di McDonald's Jack Greenberg (27 giugno) e il sociologo Ulrich Beck (2 luglio) .
Zygmunt Bauman