La Repubblica 23 giugno 2001 Il male minore è la protesta di GIORGIO BOCCA ABBIAMO la fondata impressione che la protesta del popolo di Seattle sia, tutto sommato, il meno peggio per il nuovo potere mondiale, ridotta come è, o come si vorrebbe che fosse, a un problema di ordine pubblico, di poliziotti in piazza contro teste matte: strumenti della battaglia impari ancora i travertini, i sassi del selciato. Una questione di ordine pubblico bilanciato dalla nuova ondata di beneficenza impudica in cui si prodigano gli esponenti mondani del globalismo sfruttatore e irresponsabile, stilisti, politici esibizionisti. organizzatori di pubblici scrocchi. Gli stessi che alimentano il lavoro nero e sottopagato del mondo povero. Sempre andata così nella umana storia? Può darsi ma non è una bella storia. Che cosa c'è di positivo in questo movimento di protesta che va sotto il nome del popolo di Seattle? C'è che esiste, che è una reazione a un dramma del genere umano, che è una forma di opposizione, di resistenza, confusa finché si vuole, ma naturale, a quella altrettanto naturale ma suicida tendenza del capitalismo anarcoide di divorarsi il mondo. Qualcuno ha paragonato il mondialismo neoliberista ai cercatori d'oro: chiedergli di razionalizzare la ricerca, di rispettare l'ambiente è fatica sprecata. Andranno fino al fondo di ogni vena, violeranno ogni ambiente. Una protesta confusa che prende di mira anche la civilissima Goteborg serve? Serve perché, se non ci fosse, la società moderna avrebbe l'encefalogramma piatto, il fatto che esista è quindi di per sé molto importante. Come è avvenuto il miracolo sociale di una sua costituzione spontanea, nei paesi più ricchi contro il globalismo della minoranza ricca sempre più ricca? Il miracolo è avvenuto perché per sua fortuna, la società ricca non è sorda ai rischi del globalismo dei nuovi cercatori d'oro, perché tutti coloro che da questo globalismo sono emarginati o ridotti a una condizione servile non ci stanno e protestano anche se per ora la loro protesta appare senza sbocchi politici immediati. Non era davvero difficile prevedere che il popolo delle false promesse tecnologiche, di un'eguaglianza che si è tradotta in nuove diversità inique, di una società di nuove caste più arroganti di quelle passate, di una nuova ideologia del profitto più feroce di quella classista, ma presentata come un'occasione da non perdersi, avrebbe provocato una reazione. Che si tratti di una reazione confusa e complessa, come è stato nella storia di tutte o quasi le reazioni spontanee non è da stupirsi. Vi confluiscono, come già nel 68 e in movimenti similari, pulsioni diverse, richiesta di verità contro le soffocanti propagande dei nuovi padroni del vapore, preoccupazione per l'avvenire proprio e del mondo più che giustificate dai rischi dello sviluppo e magari anche le meno nobili voglie di violenza, di menare le mani in una società di crescente rassegnazione. Ma la protesta e l'angoscia di fondo ci sono e motivate, perché il nuovo potere neoliberista e globalista dei moderni cercatori d'oro ha sin qui dato prova di essere incorreggibile. In un tempo in cui una svolta a sinistra intesa come un minimo di controllo sociale sullo sviluppo sarebbe stato naturale come un fatto di sopravvivenza, la destra dichiaratamente irresponsabile è stata riportata al potere, e persino la socialdemocrazia inglese ha preferito il privilegio di Echelon all'integrazione europea. Abbiamo la fondata impressione che la protesta del popolo di Seattle sia tutto sommato il meno peggio per il nuovo potere mondiale. Prendiamo la riunione a Genova degli otto paesi più ricchi del mondo. Non siamo di fronte a una provocazione voluta, premeditata? Perché i signori del mondo e del globalismo si riuniscono in una delle città più vulnerabili dalla violenza, una città che con la violenza fece cadere il governo Tambroni quando la polizia di Scelba pareva onnipotente? Perché questi potenti del mondo che hanno basi militari inviolabili, enclave intoccabili, navi da guerra grandi come città devono provocatoriamente scegliere proprio il palazzo ducale di una città come Genova facilmente paralizzabile? La risposta è: perché lo vogliono, perché vogliono far vedere che hanno la forza necessaria per imporlo forse perché sperano, come negli anni degli opposti estremismi, che la protesta si risolva in queste sacre rappresentazioni di piazza. Il destino del popolo di Seattle appare obbligato: finché si accontenterà di manifestazioni di piazza sopportabili dal potere sarà una faccenda di teste matte magari simpatiche come lo furono i movimenti sessantotteschi, ma se andrà oltre diventerà un raduno di sovversivi, di neocomunisti. Restano due osservazioni di fondo. O la protesta contro il globalismo sarà del primo mondo, del mondo ricco, del popolo di Seattle o non sarà. Il secondo e il terzo mondo non sono al momento in grado di opporsi. Oppure, ma non è una soluzione auspicabile, bisognerà attendere che lo sviluppo anarcoide vada a sbattere contro i suoi disastri. Ma ci andremo di mezzo tutti. |