La Repubblica 10 luglio 2001

"Siamo l'esercito dei ribelli"
Ecco il manifesto di Genova
Viaggia in rete l'appello a marciare contro i Grandi
Elaborato dal gruppo Luther Blissett, il testo è la bandiera ideologica del movimento no global

ANAIS GINORI


ROMA - «Noi siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre. Siamo antichi per il futuro, esercito di disobbedienza le cui storie sono armi, da secoli in marcia su questo continente». Ora c'è anche un manifesto culturale. Immancabile. Ogni movimento sociale ha avuto un testo unificatore, una bandiera fatta di parole che fosse pure una carta d'identità. Questo si intitola "Dalle moltitudini d'Europa in marcia contro l'Impero e verso Genova". E' già stato riprodotto in migliaia di copie telematiche, recapitato alle email del popolo di Seattle, inserito sulle prime pagine dei siti del movimento, come ecn.org o indymedia.it. E' una chiamata alle armi che si ispira ad antiche ribellioni. «Siamo i contadini della Jacquerie, i ciompi di Firenze, gli hussiti, i trentaquattromila che risposero all'appello di Hans il pifferaio». L'idea di scrivere un manifesto per Genova è stata di Wu Ming, nuova identità del gruppo di controcultura bolognese Luther Blissett. Gli autori hanno già firmato Q (Einaudi, 1999), uno dei primi romanzi antiglobalizzazione, scaricabile gratis come anche Asce di guerra (Tropea, 2000) sul sito ufficiale (wumingfoundation.com).
Il manifesto di Wu Ming (in cinese "senza nome") fa risalire le radici dei contestatori addirittura alla lotta contro il feudalesimo: «Siamo il Povero Konrad, contadini di Svevia che si ribellarono alle tasse su vino, carne e pane. Nell'anno del Signore 1514». E ancora: «Siamo i servi, i lavoranti, i minatori, gli evasi e i disertori che si unirono ai cosacchi di Pugaciov, per rovesciare gli autocrati in Russia e abolire il servaggio». Il manifesto continua, citando l'esercito inglese del generale Ludd, la rivolta proletaria del 1848, la comune di Parigi del 1871. Anche i nemici sono quelli di sempre: «Si dicono nuovi, si battezzano con sigle esoteriche: G8, Fmi, Wto, Nafta... Ma non ci ingannano. Contro di loro, ancora una volta ci solleviamo».
É presto per dire se "Dalle moltitudini..." sarà un testo fondante per chi manifesterà a Genova. Certo, lo è per le Tute bianche, considerate molto vicine ai quattro autori di Wu Ming: Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Luca Di Meo, Federico Guglielmi. E comunque, le cinque cartelle dai toni metastorici hanno già un merito: abbozzare una carta d'identità del nuovo movimento. Ovvero: nome, data di nascita, antenati.
L'anno zero, per esempio. «Non è Seattle, non è il dicembre 1999. Il movimento è nato molto prima. Almeno venti anni fa - sentenzia Mario Pianta, professore di politica economica a Urbino - Volendo si può anche risalire alla fine dell'Ottocento, quando ha preso corpo la società civile: allora come oggi la politica perde competenza e capacità di rappresentazione davanti ai fenomeni globali. Ma i gruppi e i movimenti che vediamo oggi sono nati a metà degli anni Settanta». La rivoluzione tecnologica e l'organizzazione delle istituzioni internazionali: due momenti fondamentali. «Durante le prime conferenze Onu degli anni Settanta sono iniziati i forum alternativi - spiega Pianta - Il primo controvertice è stato invece organizzato per il G7 del 1984, a Londra. Si chiamava "The other economic summit"». Il primo grande raduno? «A Berlino ovest, nel 1988 - continua Pianta - Contro una riunione del Fmi scesero in piazza 100mila persone».
Risalire agli antenati è ancora più difficile. Marco Revelli, docente di Torino esperto del movimento operaio, lancia una battuta: «Il primo globalizzatore è stato Marx. Lui ha anticipato la capacità del capitale di unificare lo spazio e trasformare il mondo in un solo mercato». Revelli, che ha appena pubblicato Oltre il Novecento per Einaudi, considera anche i "giottini" figli dei sessantottini. «Il Sessantotto è stato il primo movimento globale, si è mosso in uno spazio omogeneo e ormai globalizzato. E' esploso sulla guerra in Vietnam, ripartito in America, arrivato in Europa, passando per il Messico, ritornando in Giappone. E' quello il grande precedente storico del popolo di Seattle».
Dalla Francia, patria di tanti sessantottini, dissente Bernard Cassen, direttore di Le Monde Diplomatique e presidente dell'associazione contro il neoliberismo Attac. «Il Sessantotto non ha niente a che vedere con il movimento di oggi - ribatte Cassen che si prepara a venire a Genova -. Era soltanto una rivolta generazionale, contro i padri e in pieno accordo con il capitalismo e il consumismo. Allora c'era una fiducia nel progresso che non c'è più».
Anche Luciano Gallino, autore del nuovo Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza), ritiene impossibile costruire un albero genealogico. «Non esistono precedenti. Un movimento di una tale vastità e consonanza non è mai esistito». Gallino osserva: «Quella di adesso è una svolta, non so se epocale. Certo, la democrazia contemporanea è in crisi e questo movimento ha una forza dirompente: in pochi anni è riuscito a cambiare l'agenda politica del mondo».
I capi italiani del movimento, come Vittorio Agnoletto, chiedono intanto di rettificare l'immagine dei media: «Non chiamateci più popolo di Seattle, ma di Porto Alegre». A gennaio, nel sud del Brasile, un migliaio di attivisti si sono ritrovati per discutere di "un altro mondo possibile". «Da lì è iniziato un lavoro per trasformare il movimento: dalla contestazione alla proposta. A Genova - annuncia Agnoletto - lanceremo il nuovo slogan: un altro mondo è in costruzione».