La Regione Ticino - Ch - 3 luglio 2001
Novecento ambiguo e tragico
Il
secolo delle ideologie e del lavoro totale nell'ultima opera di Marco Revelli
L'eredità di un secolo che ha trasformato il vivere sociale come nessun altro
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Il Protocollo di Kyoto diventerà
vincolante, oppure gli Usa guideranno la rivolta (vincente) dell'economia contro la
responsabilità che dovremmo esercitare verso le generazioni future? Vincerà la logica
miope del fare (utilitaristica, di breve termine) che prescinde dalle conseguenze, oppure
torneremo davvero a pensare il futuro attraverso quella tecnica regia che è la politica
(diceva Platone) che tutte le altre tecniche (come l'economia) dovrebbe governare? Abbiamo
festeggiato il passaggio di secolo e di millennio nel momento sbagliato - a fine 1999
invece che a fine 2000. Ma il Novecento non ci ha lasciato, ci insegue con tutte le sue
ambivalenze e le sue patologie, ci ricadiamo dentro continuamente: abbiamo risalito il
tempo verso il ventunesimo secolo e il terzo millennio, ma continuiamo ad avanzare
precipitando all'indietro, in un Novecento che ci avviluppa con le spire soffocanti delle
sue contraddizioni. Forse davvero il tempo - come noi lo intendiamo: lineare, progressivo
ed escatologico - è finito: si è bloccato, non avanza più, non migliora: ma reitera
semplicemente se stesso (il proprio sfinimento, la propria incapacità di andare più
avanti), in una infinita parafrasi, in una enorme tautologia dell'esistente. Cioè della
tecnica diventata il nostro ambiente, in cui il fare funzionale (compiere atti ripetitivi,
meccanici, eterodiretti) prevale sull'agire pensato e responsabile (pensare prima di
compiere un gesto o dire una parola, pensare alle conseguenze sul domani delle nostre
azioni di oggi). Il tempo della tecnica odierna è tempo senza tempo: tempo reale, si dice
infatti, pensando a un tempo immediato, compresso, accorciato, annullato: dove tutto deve
essere fatto just-in-time, al momento opportuno, senza pensare, sempre più velocemente.
Una società a misura d'impresa La società degli uomini diventa sempre meno società e
sempre più organizzazione sociale secondo l'estensione illimitata e sempre più pervasiva
del modello della fabbrica e dell'impresa - fordista ieri, post-fordista oggi - una
società sempre meno libera perché sempre più obbligata a fare, a lavorare secondo lo
schema organizzativo imposto dalla tecnica, a replicare funzioni, comportamenti e stili di
vita imposti dal nostro ruolo (il compito, la mansione) all'interno dell'organizzazione
del fare. é una società falsamente liberale, la nostra, libertina semmai, che ci illude
(e in cui ci lasciamo piacevolmente illudere) con l'esasperazione di una (finta) libertà
tutta edonistica e nichilistica: come Casanova (nostro vero modello di riferimento) che
godeva nell'atto del sedurre una donna, per concedersi subito dopo alla ricerca di un
altro (ulteriore, illimitato) atto di seduzione (di mera seduzione estetica). Una libertà
al tempo stesso eccessiva (senza quei limiti che rendono effettiva la libertà, perché
una li bertà senza autolimitazioni è una contraddizione in termini) e illimitata che
tutto consuma e tutti ci consuma, continuamente, trasformandoci in consumatori di cose, in
cose noi stessi, in funzionari dell'apparato tecnico-economico. Pochi libri sono davvero
importanti per capire cosa è stato il Novecento come il volume del sociologo italiano
Marco Revelli Oltre il Novecento, Einaudi Editore. Un libro che ha scatenato polemiche e
irate recensioni, in Italia, da parte di una (vecchia) sinistra ancorata a una visione
ideologizzata della storia e dell'economia. Un libro che consigliamo caldamente di leggere
a tutti coloro che vogliono capire, interrogarsi, confrontarsi. Perché Revelli - uomo
dichiaratamente di sinistra - ha colto nel segno, smantellando il sogno escatologico e
paranoico insieme di una serie di ideologie novecentesche che hanno prodotto eterogenesi
dei fini, ovvero il ribaltamento delle promesse: non liberazione dell'uomo, ma suo
ulteriore asservimento. Revelli grida che il re è nudo (il mito del lavoro, il partito
come motore della storia, l'ideologia progressiva). Sentirsi dire che è nudo non piace
(ovviamente) al re, ma spesso non piace neppure (meno ovviamente) ai sudditi, che a volte
amano comunque il loro re nudo, che s i crede vestito del più bel vestito del mondo.
Revelli spiega che il Novecento, "secolo dell'ambivalenza", è stato soprattutto
asservimento al lavoro, asservimento all'apparato, all'organizzazione della fabbrica:
ovvero, costruzione e insieme costrizione nella gabbia delle modalità con cui la tecnica
ha creato e sempre ricrea il suo mondo e costringe noi uomini (noi che crediamo di
controllare la tecnica), a e-seguire ciò che la tecnica impone e pre-scrive. Consumo
dunque sono I paradossi del Novecento ci perseguitano (onnipotenza della tecnica e
impotenza degli uomini di controllarla, fini di progresso tradottisi in orrori
concentrazionari, individualizzazione della società e riduzione degli uomini a merce e
cosa, suicidio del comunismo e onnipotenza del capitalismo) anche perché ormai sono parte
integrante dell'ambiente della tecnica in cui oggi tutti viviamo passivamente, senza più
auto-nomia, piuttosto servitori sempre più disciplinati. La tecnica, la paura della
precarietà e insieme l'edonismo consumistico di massa hanno cancellato persino il
conflitto sociale e creato un largo consenso attorno all'apparato e alla sua ideologia.
Siamo felici di non dover pensare, felici di compiere un lavoro (oggi è il lavoro di
consumare, più che di produrre, siamo consumatori prima che produttori, il vero motore
dell'economia è consumare) che ci esenta dalla responsabilità. Poco ci importa che
questo abbia cancellato il passato e il futuro. Ciò che conta - ciò che importa alla
tecnica - è l 'immediato presente, non gli scopi di ciò che facciamo, ma la banalità
deresponsabilizzante della modalità con cui lo facciamo. Dice Revelli: "Il Novecento
è stato - come negarlo? - il secolo dell'homo faber. Quello in cui, quasi con ferocia,
l'uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva ed il mondo la realtà fabbricata.
Sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività
della produzione è stata ridisegnata la sua società, sulla totalità del lavoro è stata
rifondata la sua etica". Una sorta di totalitarismo del fare. Non è vero, allora,
che oggi viviamo nella società della conoscenza, della libertà, dell'autonomia
individuale. Se ieri, nella grande fabbrica fordista si lavorava come pezzi di una
macchina, ripetendo gesti e movimenti sempre uguali e ripetitivi, sempre ossessivamente
controllati dai capi e minuziosamente misurati nella nostra produttività (quanti pezzi
prodotti in un certo tempo), non è vero che l'economia flessibile, immateriale,
neotecnologica (la rete, Internet) e postfordista di oggi sia il regno dell'autonomia,
della libertà, della responsabilità, della valorizzazione dell'i ntelligenza e delle
competenze di ciascuno. Semmai, al contrario (e questa è un'altra delle ambivalenze del
Novecento) si è intensificato il processo di integrazione dei singoli
nell'organizzazione: uomini che oggi vendono soprattutto intelligenza (l'organizzazione
ieri assumeva la forma della catena di montaggio, oggi ha assunto la forma della rete
produttiva e informatica). Una organizzazione che non ha più bisogno di controllori né
di misurare la nostra produttività, perché siamo diventati noi stessi servitori
volontari, aderiamo all'organizzazione in modo del tutto automatico (in-cosciente), siamo
sempre più integrati nella totalità dell'organizzazione stessa. Invece di ridursi, il
tempo di lavoro torna oggi ad aumentare, aumentano i ritmi; e, soprattutto, tutto è
diventato lavoro, non esiste più differenza tra tempo del lavoro e tempo del non lavoro:
vendendo infatti soprattutto competenze e intelligenza (molto meno la forza fisica) la
nostra integrazione nell'organizzazione si fa ancora più perfetta e totale. Dopo la
banalità del male - il lager come lavoro e come organizzazione - eccoci (senza soluzione
di continuità) alla banalità del fare. Perdiamo autonomia e libertà, eppure il sistema
dice che siamo più liberi. L'organizzazione mente, usa una bugiarda neolingua orwelliana
adatta all'ideologia del fare intesa come forma uni-versale del mondo. I conti con il
comunismo Ma Revelli fa i conti anche (soprattutto?) con il comunismo. Non da revisionista
ovviamente - quel revisionismo oggi di moda e che rilegge il passato non per capirlo ma
per banalizzarlo e rimuoverlo. "é anche al comunismo che bisogna guardare - scrive
Revelli - se si vuole, al di fuori della dimensione abbacinante del male assoluto, gettare
lo sguardo sulla natura profonda del secolo. Nato dal progetto prometeico di dare forma di
potere al lavoro liberato dalle costrizioni capitalistiche - fino a farne principio
generale di organizzazione della società - esso ha finito per porre in essere il più
potente, esteso e apparentemente irresistibile apparato politico di coercizione.
Espressione della libera aspirazione a riscattare l'uomo dalla natura di merce (di cosa),
ha finito per generare un universo interamente pietrificato nel suo profilo di società
del lavoro totale". E dunque? Come uscire da un mondo tutto fabbricato e lavorato?
L'unica figura della ribellione e insieme della solidarietà, è quella - dice Revelli -
del Volontario, di colui che esce dalla logica del fare. Figura socialmente forte, questa
del Volontario, forte della propria debolezza, figura impolitica addirittura. Senza
apparati, senza ideologie, ma capace di muoversi nel sociale, ravvivandolo e
ricomponendolo, creando nuovi legami, secondo un agire che - finalmente - non sia
ri(con)ducibile alla sola logica dell'utile. Secolo terribile, dunque, il Novecento. Ma
soprattutto ambiguo e ambivalente. La sua eredità ci perseguita e non è certo con
l'odierno nichilismo di massa che ne usciremo davvero. Altre strade dobbiamo cercare.
Anche a costo di non trovare. |
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