La Repubblica 22 giugno 2001
IL PIANETA SPEZZATO LE IDEE
di Kofi Annan
UNA larga parte della popolazione mondiale in questo momento è completamente fuori dal
mercato globale. Non produce né consuma praticamente niente. Ha bisogni enormi e un
desiderio di beni e servizi forte, pari a quello di chiunque altro. Ma non è in grado di
pagare nulla, perché non guadagna nulla.
Sono donne e uomini paralizzati dalla fame, dalle malattie, dall'ignoranza,
dall'isolamento. Insomma, dalla povertà. In molti luoghi la loro stessa esistenza è
minacciata, dalla violenza o dal degrado ambientale. Eppure, potrebbero vivere in un modo
completamente diverso.
Il nostro pianeta è benedetto da risorse che potrebbero nutrire tranquillamente i sei
miliardi di persone che vi abitano, e anche di più.
Ma almeno un miliardo di bocche non hanno cibo, mentre derrate in eccesso marciscono nei
magazzini dei paesi ricchi.
Le malattie per cui tanta gente nel sud del mondo soffre e muore la malaria, la
turbercolosi, e perfino l'Aids sono prevenibili e curabili. Ma meno del 10 per cento della
spesa per la ricerca è destinata a curare queste malattie "da povero". I paesi
in via di sviluppo possono spendere soltanto tra i 5 e i 10 dollari procapite all'anno per
i propri cittadini, lì dove ce ne vorrebbero almeno 60 a testa per assicurare servizi
minimi accettabili.
Simile la situazione dell'istruzione. Con una spesa di 7 miliardi di dollari all'anno
potremmo assicurare le scuole elementari a tutti i bambini dei paesi in via di sviluppo
che ora non possono accedere ad alcuna forma di alfabetizzazione.
Investimenti anche più limitati basterebbero per rompere l'isolamento di tante comunità
povere. Questo grazie alle nuove tecnologie, dai telefoni cellulari a Internet. Già oggi
questi strumenti stanno consentendo alle contadine del Bangladesh di commerciare i loro
tessuti, e ai pescatori dello Stato indiano Kerala di vendere a prezzo migliore il loro
pesce.
Non voglio naturalmente dire che cambiare questa situazione sia facile. Ma sono certo che
se governi, imprese e società civile collaborassero, il mondo potrebbe essere più ricco
e più sicuro, insomma un posto migliore in cui vivere. Una differenza che converrebbe a
tutti.
Chi fa affari, ad esempio, ha bisogno di consumatori, gente, cioè, con il denaro in
tasca. E poi di lavoratori, che può addestrare direttamente, ma solo a patto di poter
dare per scontata un'istruzione di base. E infine anche di un ambiente naturale integro,
necessario per attività che durino nel tempo. Pensare a tutte queste cose, mi potrà
rispondere qualcuno, è compito dei governi. Ma non tutti gli obiettivi sociali possono
essere raggiunti semplicemente tassando e stanziando fondi. Anche i governi hanno bisogno
di partner, non solo nel mondo del business ma anche nella società civile e nel
volontariato. Fondazioni caritatevoli, gruppi di pressione, "think tanks",
università, agenzie umanitarie. Persone unitesi volontariamente per uno scopo comune,
più o meno ambizioso, in cui credono.
In molti paesi è abbastanza normale per queste tre forze business, governi, e società
civile lavorare insieme per rafforzare la comunità locale o nazionale. Se tutto questo è
vero a livello nazionale, dove ci sono governi veri e propri con potere e autorità
sufficienti per imporre leggi e fornire servizi sociali, questo deve essere vero nella
comunità internazionale le cui regole si basano proprio sulla cooperazione volontaria.
I governi, per lo più, rimangono ancora saldamente ancorati a preoccupazioni locali,
mentre il mondo degli affari e la società civile diventano sempre più
"globali". È dunque dovere di chi vuole fare affari nel mercato globale fare
tutto ciò che è possibile per creare e sostenere la comunità globale. Questo potrà
sembrare un ragionamento astratto e teorico, in realtà è assolutamente pratico.
Né i governi né gli imprenditori hanno la bacchetta magica. Ma lavorando insieme, e
insieme alle organizzazioni del volontariato, possono costruire il cambiamento.
È così anche per la sfida ecologica. Soltanto i governi possono mettere a punto e far
rispettare regole di tutela dell'ambiente, possono prevedere incentivi perché il mercato
rispetti la natura. Ma serve il settore privato per inventare e produrre tecnologie
sostenibili.
In caso di guerre, ovviamente la responsabilità maggiore è dei governi. Ma le aziende
hanno il dovere di non fomentare o sfruttare il conflitto per motivi di lucro. E spesso
possono giocare un ruolo importante per risolvere o prevenire uno scontro, per esempio
offrendosi come canale riservato di comunicazione tra gli avversari o affiancando ai loro
investimenti in miniere e petrolio finanziamenti per lo sviluppo sociale delle comunità
dei luoghi in cui fanno affari.
Al Forum economico di Davos ho proposto il "Global Compact", un patto con cui le
aziende si impegnino a rispettare diritti umani, standard internazionali di lavoro e
l'ambiente. Molte sono già state le compagnie che hanno risposto positivamente al mio
appello. Ora io chiedo ad altri di seguire quell'esempio. E credo di aver chiarito perché
accogliere questo invito non significhi rinunciare ai propri interessi corporativi.
Chi fa business, anzi, dovrebbe diventare anche un difensore di politiche di governo
illuminate. Chi fa "affari globali", dovrebbe sollecitare l'apertura dei mercati
affinché i prodotti dei paesi poveri possano raggiungere i paesi ricchi, dovrebbe
perorare una generosa remissione dei debiti, chiedere nuovi aiuti per i paesi che
effettivamente si siano impegnati a migliorare le condizioni dei propri popoli. Questo
ruolo sociale va percepito sempre di più come complementare e non contraddittorio
rispetto agli sforzi per realizzare profitti.
Insomma, occorre capire sempre di più che il mercato globale richiede una cittadinanza
globale.
l'autore è Segretario generale dell'Onu
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