La Repubblica 13 luglio 2001

Argentina, i giorni della paura REPORTAGE

dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI


BUENOS AIRES- D'un tratto questa selva di grattacieli bianchi che parevano rappresentare plasticamente la solidità residua dell'economia argentina sembrano un fondale di cartapesta sul punto di venire giù di schianto, con un fracasso destinato a spandere panico nei mercati emergenti dal Sud America all'Europa orientale. Non è detto che finirà così malamente. Ma da due giorni gli eventi sembrano ricalcare il copione delle grandi crisi finanziarie, con il solito scarto tra il tenace ottimismo delle dichiarazioni ufficiali e l'altrettanto tenace pessimismo degli investitori in fuga.
Nel grattacielo che ospita l' associazione degli industriali ieri mattina il presidente De la Rua vantava "la risposta patriottica" della nazione ai tagli di salari statali, pensioni e servizi pubblici decisi dal governo (o più esattamente dal credito internazionale, quando ha negato ulteriori finanziamenti all'Argentina se non a tassi esorbitanti).

Ma la borsa di Buenos Aires, che patriottica non è, alla stessa ora perdeva ben sette punti percentuali, non credendo né al presidente né alla prognosi del Fondo monetario («La situazione finanziaria migliorerà nelle prossime settimane»). Aggiungeva De la Rua che «resistenze» ai tagli vengono solo da «alcuni settori»: ma sono settori importanti, rappresentati nella maggioranza di centrosinistra. L'alleanza di governo è sopravvissuta ad una giornata di riunioni tumultuose, ma adesso appare così traballante e incerta da convincere un autorevole istituto statunitense ad alzare il rischioPaese oltre il livello della malandata Turchia. E fin dall'altra notte tamburi di guerra rullavano nelle dimostrazioni convocate da vari sindacati, il più importante dei quali, l'associazione degli impiegati statali, minaccia di paralizzare il Paese con scioperi a tempo indeterminato e occupazione di edifici pubblici. E' cupo l'orizzonte di un centrosinistra che a ottobre dovrà affrontare le elezioni.
Sull'Argentina cala in queste ore quell'affannosa incertezza delle grandi crisi che si ripercuote immediatamente sull'esistenza di ciascuno. A parte i magistrati, casta potente e dunque esclusa dalle decurtazioni degli stipendi, nessun dipendente dello Stato sa quale salario percepirà alla fine di luglio. Il governo taglierà stipendi e pensioni di una percentuale che sarà decisa mese per mese, probabilmente tra l'8 e il 14 per cento, fin quando sarà necessario. Per aiutare le fasce più deboli le banche si sono impegnate a rilasciare carte di credito, o di debito, a interessi minimi, un esperimento riuscito in Corea. Ma l'unica cosa chiara è che a perdere saranno i dipendenti pubblici, i pensionati, e un ceto medio già impoverito da tre anni di incerte manovre finanziarie e depressione. Ovviamente il ministro Cavallo promette che il governo sarà «inesorabile» con le imprese che evadono il fisco. Ma per trasformare un colabrodo in un sistema fiscale «inesorabile» non bastano certo poche settimane, e il governo ha un'impellenza assoluta: risparmiare 15 miliardi di dollari nei prossimi sei mesi, per arrivare all'obiettivo del «deficit zero». Nelle speranze di Buenos Aires questa dimostrazione di rigore muscolare convincerà i mercati finanziari a ripristinare la fiducia nell'Argentina, e cioè ad abbassare i tassi d'interesse. A quel punto sarebbe possibile riattivare la crescita economica. Ma una strada analoga e più blanda, tentata nel maggio 2000 con aumenti delle imposte e tagli modesti ai salari pubblici, ebbe l'effetto opposto: caduta dei consumi, definitivo ingresso in una fase di crescita negativa.
Tutto questo sembra offrire quasi un caso di scuola, e un fresco argomento su cui accapigliarsi, allo scontro montante alla vigilia del G8, tra «globalisti» e «antiglobal». In Argentina la sinistra che si definisce antiglobal e «soberanista» (in quanto ritiene di difendere la sovranità nazionale contro l'invadenza del sistema del credito internazionale) legge nella crisi in corso il risultato di due immoralità: il vampirismo delle banche internazionali e l'egoismo del Fondo monetario, che avrebbe imposto la politica del «deficit zero» unicamente per evitare l'insolvenza o la svalutazione del peso, eventi (per nulla scongiurati) che terremoterebbero i mercati internazionali. Questa sinistra dunque pretende che il governo aumenti la pressione fiscale solo sugli abbienti, risparmi i ceti deboli, e rifiuti di farsi imporre la politica economica dall'estero. Ma la questione ineludibile è che al punto in cui è precipitata la crisi argentina «il problema non è più ideologico, è matematico», come ha spiegato brutalmente un leader della maggioranza: «Negli anni Novanta la nostra economia è cresciuta del 43%, la spesa pubblica del 90%, e noi abbiamo continuato a indebitarci». Tutto questo veniva spacciato per un nobile keynesianismo, coraggiosamente in controtendenza contro il pensiero unico monetarista. Ma, come si ammette oggi, in realtà fu soprattutto sperpero assistenzialista e clientelare, con un picco tra il ‘97 e il ‘99, e soprattutto ad opera dei governi precedenti (populisti di centrosinistra e di centrodestra). L'ultimo ha soltanto ereditato il disastro, ma non ha fatto molto per contrastare un'evasione fiscale pari ai 15 miliardi di dollari che lo Stato cerca ora affannosamente di risparmiare.
L'unico aspetto positivo di questo naufragio è che finalmente l'Argentina affronta il suo problema storico: la dependencia, la dipendenza dal credito internazionale. In un testo di rara profondità, "The wealth and poverty of nations", lo storico di Harvard David Landes ricorda come fin dall'Ottocento gli argentini si siano abituati a considerarsi vittime incolpevoli delle nazioni creditrici, evitando così di interrogarsi sulle proprie mancanze. «Era sempre più semplice biasimare l'Altro. Il risultato: un antiimperialismo xenofobico e un senso di inadeguatezza autolimitante». Sotto altre forme comune all'America latina, fino al punto da essere considerata il suo miglior prodotto d'esportazione, la dottrina dependentista secondo Landes avrebbe «promosso impotenza economica rinforzando una morbida propensione a trovare colpe ovunque tranne che in casa propria». Ecco una tesi che meriterebbe l'attenzione degli antiglobal.