La Stampa
Giovedì 19 Luglio 2001
TRA RETI E SBARRE PESSIMO SPETTACOLO PER
I LUOGHI DESTINATI AD ACCOGLIERE I «DISOBBEDIENTI»
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Allo stadio la siesta della tuta bianca
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Bivacco al Carlini, tendopoli malinconica
del movimento
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inviato a GENOVA
RETI, grate, sbarre, gabbie, tribune, gradinate e cemento armato: il movimento è già all’ultimo
stadio, o al penultimo, non fa alcun differenza, dato che in ogni caso per dare
ospitalità ai rivoltosi si è scelto di accoglierli all’interno di stadi, impianti
sportivi, campi di calcio, arene comunque destinate ad essere viste dall’alto.
Ed è un pessimo spettacolo, davvero. Lo stadio Carlini, a Sturla, sembra un campo di
concentramento. Quando ieri mattina, intorno alle cinque e mezza, si sono presentate le
forze di polizia in tenuta anti-sommossa per una perquisizione, l’effetto-Pinochet
sembra sia stato abbastanza impressionante e ai «disobbedienti» - così si
autodefiniscono - ha concesso un brivido supplementare.
Il ricordo tragico del « Nacional » di Santiago dopo il golpe del 1973 è
ovviamente esagerato. E però tutte quelle puntute delimitazioni di acciaio grigio, i muri
scrostati, le piastrelle verdi dei sotterranei fanno pensare piuttosto a uno zoo. Il tempo
incerto, le nuvole basse e gli sgocciolii non aiutano. Sotto il grande tendone
bianco-sporco parecchie tende canadesi; al centro pozzanghere. Pochi ospiti, ma già
bastano, e se ne aspettano, anzi se ne sperano tanti di più. Rimbombo di tamburi, una
cucina da campo molto rimediata. Il portavoce-leader delle tute bianche, Luca Casarini,
dorme in tribuna, il braccio sotto la testa come un cuscino, è senza scarpe e ha i
calzini viola.
Colore giornalistico? Eh, sì, ma questa trovata degli stadi è tutt’altro che
felice, e mica solo per ragioni estetiche, o al limite igieniche (a proposito: al Carlini
le docce sono poche, i cessi così così). E’ che gli stadi sono luoghi dove si sta
bene un’ora, due, tre, massimo quattro. Poi basta, pietà, aiuto. «Non è
sorprendente - si chiedeva il filosofo francese Michel Foucault - che le prigioni
assomiglino a fabbriche, scuole, cliniche e caserme, le quali a loro volta assomigliano a
prigioni?».
Ecco: la circolarità degli universi concentrazionari fa sì che gli impropri abitatori
degli stadi, osservati a distanza, si assomiglino un po’ tutti; ragion per cui ieri i
ragazzi del Gsf ricordavano gli albanesi che una decina di estati orsono, arrivati
stravolti su quelle navi la cui visione è impossibile dimenticare, furono sbattuti dove?
Nello stadio di Bari, dove vissero per qualche giorno con donne e bambini sotto lo
schioppo del sole, prima che l’astuta accoppiata Scotti-Parisi li rispedisse tutti in
Albania con un paio di jeans e 30 mila lire (e qualche bastonata ai più nervosi).
Per cui Pinochet, ma pure la protezione civile italiana che non funzionava tanto bene. E
il generale portoghese Otelo De Carvalho, che dopo la liberazione minacciò di mandare gli
avversari nella splendida « plaza de toros » di Lisbona, però anche il catino
infuocato del Palasport di Bologna, durante la tre giorni del settembre 1977, con gli
autonomi che le davano e se le davano di santa ragione, forse per il fatto che erano
rinchiusi o si erano rinchiusi lì dentro.
Un «ghetto» si disse allora. E ghetti, francamente, paiono anche questi di Genova,
seppur assai meno violenti. In linea di massima, a parte gli hooligans e le
tifoserie serbe e croate divenute milizie, quando non si paga il biglietto per entrare,
per assistere a una partita o godersi un concerto, gli stadi sono posti a rischio di
emarginazione e perfino di auto-emarginazione; comunque di estraneità, alienazione,
conflittualità.
L’impianto polisportivo di Sciorba, per dire, dalle parti di Molassana Val Bisagno,
è molto meglio del Carlini. Più pulito, più moderno, più spazioso, più organizzato,
infermeria, autoambulanza, erba per terra, cabine igieniche sufficienti, acqua bastevole,
atmosfera distesa, treccine, narghilè, gli iraniani per conto loro. C’è pure una
bella piscina nei pressi. Il guaio è che in città, sull’onda del più misterioso e
paranoico allarmismo, si sono convinti che è qui che stanno i cattivacci, e quindi
nessuno viene a portare i viveri; e l’uomo di buona volontà che gestisce il tutto è
disperato.
Mentre il «Riot Camping», accolto non lontano dall’ospedale psichiatrico di Quarto
nel mini stadio di via Ciclamini, oltre ad essere spettrale perché ancora quasi deserto,
ha problemi di luce. Ma quando si accenderanno le altissime lampade sul campo da gioco
anch’esso ricoperto da un tendone, e sotto il tendone altre tendine con i loro
sandaletti messi fuori ad asciugare, e le bottiglie vuote di acqua, gli avvisi a
pennarello con lo scotch, i tocchi di pane per terra, i cani senza collare addormentati,
ecco, quando finalmente queste luci si accenderanno, più di ogni eventuale disagio
saranno evidenti i confini, i limiti, le sacre barriere che separano anche questo scomodo
palcoscenico dal resto della città.
Per cui sì, certo, l’assedio ai potenti della terra, costretti a nascondersi, a
blindarsi al punto da stuprare con muri e reticolati una città di struggente bellezza. Ma
c’è anche un contro-assedio, tanto più sottile, e diffuso, e insidioso, quanto più
assecondato da posizioni di radicale alterità, auto-esclusione, o rabbia pura.
Di questo sentimento provvisorio la stadio è la rappresentazione compiuta. Nessuno spazio
è infatti più simbolico di uno stadio. E questa di Genova, a pensarci bene, è proprio
una guerra di simboli e spazi, oltre che di varchi, docce, cessi, globalizzazione e tute
bianche. Spazi assegnati, inadeguati, da violare, da conquistare; spazi di agibilità
politica, di democrazia, di sopravvivenza...
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