Manifesto 18 luglio 2001

"Oggi è in crisi l'élite del potere globale"
INTERVISTA A WALDEN BELLO "Non c'è una alternativa al mercato bensì molteplici. Genova è un altro passo verso il futuro"
MARINA FORTI - INVIATA A GENOVA

Lunedì Walden Bello si era rivolto al pubblico del Public Forum parlando di Genova come di uno dei nomi legati all'emergere dell'economia capitalista, sei secoli fa. Filippino, sociologo ed economista, ottimi studi negli Stati uniti, attualmente docente all'Università Chulalongkorn di Bangkok, dove anima il gruppo di riflessione Focus on the Global South (vedi www.focusweb.org), Walden Bello è tra le voci più autorevoli di quel movimento ormai mondiale di critica definito, semplificando, "anti-globalizzazione", e afferma che sia l'economia, sia la politica globale sono precipitate in una crisi profonda. Seduti sul lungomare di Foce, il quartiere genovese dove è confinato il Forum, gli chiedo se la sua era solo una concessione alla città di cui siamo ospiti - o se voleva suggerire che il capitalismo è sempre stato per vocazione un affare "globale". "Certo, ci sono state diverse ondate di espansione capitalista, cominciate del resto con la colonizzazione di nuovi mondi... Ma ora sto parlando dell'ultimissima fase, quella cominciata una ventina d'anni fa, trainata dalle grandi aziende multinazionali e dal libero mercato: quella che dopo il 1989 è sembrata celebrare un trionfo assoluto. In nome dell'integrazione all'economia globale, gli stati sono stati spinti a smantellare tutti i meccanismi protezionisti e regolatori, sia nel Nord che nel Sud del mondo - pensa al ruolo del Fondo monetario internazionale nel promuovere la libertà assoluta del flusso dei capitali, e la Banca mondiale nello spingere i paesi in via di sviluppo a 'integrarsi' all'economia globale. Ecco: è stato un grande disarticolare le economie nazionali e un riarticolarle in una economia globale integrata. Ma è un processo non terminato, tutt'altro, anzi incontra forti resistenze".

Spesso questa fase della globalizzazione delle economie è descritta come l'impero delle "corporations", aziende più potenti degli stati nazionali. Lei però parla di crisi politica.

Spesso si sottovaluta la dimensione politico-militare della globalizzazione. Eppure, diversi elementi dovrebbero mettere sull'avviso. E' vero, le grandi aziende sembrano più potenti degli stati. Ma si tratta in primo luogo di una élite di aziende, quella statunitense. Il quadro politico-economico è guidato dall'interesse prioritario degli Usa, in competizione con gli altri "grandi". Ed è protetto dalla potenza militare e politica americana - in definitiva, dalla bomba atomica. Non bisogna dimenticarlo. Inoltre, questa relazione tra economia e potenza militare non è semplice, a volte gli interessi divergono. Guarda il caso della Cina: c'è un conflitto tra chi vuole "contenere" Pechino, il Pentagono in testa, e Wall Street che vuole invece sfruttare le relazioni economiche cinesi: con l'amministrazione Bush ora vediamo prevalere la fazione del Pentagono. Poi c'è un altro aspetto della crisi politica, quella della governance - insomma, la democrazia. E' in piena crisi un certo modello di democrazia "Westminster-style", attento alle libertà formali e alle elezioni come meccanismi di legittimazione e però allergico alla redistribuzione e all'eguaglianza sociale - e spesso permeabile alla "politica del denaro", la corruzione. Dalla metà degli anni '80 questo modello sta andando in crisi ovunque, perché non puoi avere sistemi formalmente democratici su strutture sociali fondate sulla diseguaglianza. Non penso solo ai sistemi corrotti e traballanti nel Sud del mondo. Negli Usa, l'elezione di Bush segna una crisi di legittimità profonda: ha perso il voto popolare, probabilmente aveva perso che quello dei grandi elettori e deve la presidenza - più di ogni altro presidente dei tempi recenti - al solo corporate power, il potere di alcune grandi aziende. Ma anche in Europa la democrazia è in crisi, una crisi di legittimità. D'altro lato, sono delegittimate le istituzioni finanziarie internazionali, che promettevano integrazione e sviluppo e invece ci troviamo un mondo più diseguale e più povero. E' in crisi il multilateralismo, con Bush che va avanti con la sua difesa missilistica o denuncia il protocollo di Kyoto. La vicenda di Kyoto dimostra quanto siano legate la crisi ecologica e quella del multilateralismo. E poi è i crisi l'economia.

Siamo alla vigilia di una grande crisi?

Certo non siamo di fronte alla solita crisi ciclica di espansione-contrazione, di questo sono convinto. Siamo nel pieno di una crisi strutturale, la più classica: una crisi da sovrapproduzione. Durante il boom degli anni '90 gli investimenti sono stati sovradimensionati in quasi tutti i settori di rilievo - infrastrutture, telecomunicazioni, automobili, beni di consumo: si produce troppo di quasi tutto. Tutto quello che è successo alla fine degli anni '90 ruota attorno alla crisi di redditività nell'economia reale, che ha portato i capitali a cercare profitto nella finanza. Negli Usa i profitti hanno smesso di crescere nel 1997 e la risposta è stata una serie di fusioni, sia industriali sia finanziarie, e insieme la fuga dei capitali verso una finanza sempre più speculativa. E' nato quello che si chiama il complesso Wall Street-Silicon Valley. Ma nell'ultimo anno e mezzo anche la "bolla" della new economy è scoppiata, mandando in fumo 4.600 miliardi di dollari. In retrospettiva, la crisi asiatica del 1997-'98 e tutte quelle che sono seguite, russa, brasiliana, ora la crisi negli Usa con i suoi riflessi in Europa, sono tutte legate: un unico ciclone depressivo e recessivo. Tra gli analisti economici c'è un sacro terrore, proprio perché è chiaro che non si tratta di una crisi ciclica ma di qualcosa di più profondo, da cui nessuno sa bene come uscire. E sono terrorizzati perché l'interazione tra le diverse crisi potrebbe diventare una crisi esplosiva di egemonia mondiale.

Queste élite in crisi di legittimità hanno di fronte un movimento, che però ha tante anime diverse.

Non avrei timore nel definire questo un movimento, anche se ha tante diversità. Proprio perché la stabilità del sistema mondiale è minacciata da tante crisi, le persone direttamente colpite da uno o l'altro aspetto della crisi sono sempre di più. Sì, restano anime e ideologie diverse, perché ciascuno arriva con le sue priorità. La crisi ecologica, ad esempio, è parte della crisi del capitalismo; ma all'inizio i movimenti ambientalisti del Nord non vedevano la povertà nel Sud e la lotta alle disegueglianze come una priorità. Siamo nella fase in cui interessi e priorità diverse stanno scoprendo quanto hanno di comune, e occasioni come questo Forum a Genova servono proprio a questo. Perciò è importante che non permettiamo all'establishment di dividerci in violenti e pacifici, razionali e irrazionali, buoni e cattivi. Né permettiamo che ci descrivano come un movimento di pura protesta, magari con legittime ragioni ma nessuna alternativa da offrire. Distruzione e creazione vano insieme, Schumpeter parlava di "distruzione creativa". A volte la stampa si aspetta che enunciamo un sistema coerente e ideale alternativo al mercato, ma non è così: non c'è una alternativa bensì molteplici. Il punto è creare spazi di alternativa. E da Seattle a Porto Alegre abbiamo visto emergere la parte innovatrice. Genova è un altro passo verso il futuro.