La Repubblica 16 luglio 2001

"A Genova la nostra disobbedienza
servirà a garantire la democrazia"

Casarini, il capo delle "tute bianche" denuncia l'"Impero"

FABRIZIO RAVELLI


GENOVA - «E adesso tutti a Genova, senza paura. Perché esserci sarà un atto di disobbedienza civile, ma anche l'unico modo per tenere aperti gli spazi della democrazia». La tuta bianca Luca Casarini, portavoce senza quasi più voce per le notti in bianco e per l'oscuramento del telefonino («eccesso di intercettazione»), fa partire in tutta tranquillità il conto alla rovescia. L'Impero, come lo chiama lui con linguaggio immaginifico, mette i bastoni fra le ruote. Venire a Genova sarà una gimkana. Ma questa, dice, è già una mezza vittoria.
Centomila persone lungo un percorso a ostacoli, fra irrigidimenti governativi e rabbie antiG8. Le pare una situazione tranquillizzante, per la gente normale che vorrebbe esserci?
«Io dico che è giusto denunciare quello che fa l'Impero, le sue bugie e i suoi inganni. Ma l'avevamo messo in conto: dal blocco delle stazioni, alla soppressione dei diritti civili. E' sicuramente un problema, perché rende difficoltoso quello che dovrebbe essere naturale. Ma è anche una vittoria. Siamo riusciti a mostrare la loro vera faccia, al di là delle fioriere, della supernave Eurovision, del ministro Ruggiero. E poi non si ferma con una mano un'onda come questa, nemmeno se la mano è di ferro, armata di manganelli e di decreti di espulsione. Questo è per noi il momento di dare coraggio: ora non solo è possibile, ma è anche necessario. Saremo la moltitudine di Genova, tutti insieme, con la pura forma della disobbedienza civile, nonostante le difficoltà, contro l'autoritarismo organizzato. L'Impero è debole».
Ma se tutta la faccenda ha preso una piega militare, non è anche colpa vostra? Delle vostre dichiarazioni di guerra, dell'esibizione di divise ed elmetti?
«Come si dice: chi fa, ha sempre delle responsabilità. E chi non fa, non può mettersi al riparo, e pensare: io me ne sto a casa tranquillo. Noi siamo solo una parte, una delle tante forme di espressione. Certo, quando quattro straccioni si mettono insieme e diventano l'Antagonista, l'impressione può essere quella. Che sia una faccenda che riguarda pochi. Però sono quattro straccioni che parlano sempre alla società civile, non al Potere. E finiscono sempre con il concetto di moltitudine. Noi non lo siamo, una moltitudine, ma vogliamo stare nella moltitudine. Non siamo un esercito, non siamo professionisti, o eroi solitari che si battono contro l'Impero. I nostri problemi sono gli stessi di chi abbiamo intorno. Non abbiamo mai pensato di essere autoreferenziali, anche se a volte ci accusano di protagonismo. Non vogliamo fare carriera, non vogliamo diventare parlamentari».
Il blocco delle stazioni e l'irrigidimento del governo hanno seminato parecchio nervosismo, nel fronte antiG8. C'è il rischio di spaccature, fra i "buoni" che trattano e i "cattivi" più radicali?
«Non credo. Possono emergere diversità che erano forse annebbiate dallo stare insieme per un obiettivo comune. Credo che la scelta della disobbedienza civile sia una politica strategica, non di moderazione. Non è che se ci chiudono tutto, allora succede chissà che. L'Impero si comporta come tale. Le sue chiusure e i suoi inasprimenti non sono auspicati, ma nemmeno devono far cambiare la nostra strategia».
Quindi, in piazza, nessuna radicalizzazione dei comportamenti?
«No. La durezza è già nel mondo, in questo mondo. Se ci chiudono le stazioni, non cambia molto. La disobbedienza civile è una cosa di cui l'Impero ha una paura fottuta. Vorrebbero provocare una polarizzazione: fra chi non fa più nulla e pensa "ma chi me lo fa fare?", e chi si chiude in un ghetto. E ricordiamoci una cosa: quello che succede in piazza è determinato da loro, è la polizia che provoca le violenze. Ma la disobbedienza civile riuscirà a violare la zona rossa, e a ottenere il consenso di chi fa le veglie di preghiera. Che loro si riconoscano in me, e io in loro. Disobbedienza civile significa adottare quelle soluzioni politiche e tecniche che tengono insieme conflitto e consenso».
Sfondare le barriere, senza far inorridire le suore in preghiera?
«Beh,anche negli Settanta la pratica dei picchetti, che veniva prima considerata violenta, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza come manifestazione per affermare i diritti dei lavoratori. Invadere la zona rossa è una illegalità. Ma si tratta di una scelta fatta dalla moltitudine, necessaria per rimuovere ogni chiusura all'esercizio della democrazia».
Ed è anche una faccenda di comunicazione, per occupare spazi su giornali e telegiornali.
«Certo. E per questo dà fastidio. Berlusconi dice che sul G8 ci giochiamo la faccia. Ma anche organizzare il G8 in questo modo è una scelta comunicativa. Dentro la società della comunicazione, la rappresentazione è un elemento formidabile: per loro di controllo, per noi di ribellione. E finora, dal punto di vista della comunicazione, li abbiamo devastati».
Pensate dunque di avere già vinto?
«No. Pensiamo di aver vinto la battaglia sul terreno della comunicazione politica, della costruzione di relazioni, della delegittimazione del G8. Adesso c'è il problema dell'azione, dello scendere in piazza tutti insieme. Io voglio che il giorno dopo Genova, nessuno si dissoci da quello che ho fatto. Sarà una pubblica illegalità di massa, una voglia di ribellione con radici profonde. Non ce la inventiamo per avere un'identità. Siamo un esercito che ha come obiettivo quello di sciogliersi».