Corriere del Ticino 12 luglio 2001

Nuova geografia dei conflitti

L'EDITORIALE - Risorse naturali e scintille di guerre

di Gerardo Morina

 


A dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino gli analisti politici sono tuttora alla ricerca di un modello entro cui configurare la dinamica del potere globale nel mondo del dopo-Guerra Fredda. È risaputo che il crollo del comunismo sovietico ha determinato il passaggio da un mondo «bipolare» (USA e URSS contrapposti) a un mondo «unipolare» in cui l’unica superpotenza globale rimasta – gli Stati Uniti – si è affiancata a centri di potere minori come Europa occidentale, Russia, Cina e Giappone. Nei primi anni Novanta le violenze nell’ex-Jugoslavia, Kashmir e Africa Centrale hanno fatto concentrare gli sforzi della comunità mondiale sulla prevenzione dei conflitti etnici. Ma la globalizzazione economica produce oggi nuovi effetti: trasforma alcune zone povere in centri di prosperità pur lasciandone altre in uno stato di estrema povertà e innesca conflitti più legati alla lotta per l’accaparramento delle risorse naturali che dettati da spinte nazionalistiche. Capita cosí che le vicende del mondo contemporaneo non siano prontamente classificabili in schemi eminentemente politici, economici o di sicurezza internazionale. In altre parole, mentre durante la Guerra Fredda si formavano divisioni e alleanze lungo linee ideologiche, oggi la competizione economica plasma le relazioni internazionali in base all’accesso a beni di importanza vitale e al potere di conservarli.

In primo piano si colloca ovviamente la corsa al petrolio. Secondo le previsioni del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, il consumo mondiale di petrolio aumenterà dai 77 milioni di barili al giorno registrati nel 2000 ai 110 milioni del 2020. Con una popolazione mondiale che, secondo i demografi, potrebbe toccare i dieci miliardi di abitanti entro il 2050, il rischio che si determini uno scompenso tra domanda e offerta è tutt’altro che remoto. È dunque sempre più la conquista dell’«oro nero» a determinare le strategie internazionali e a disegnare la geografia di potenziali conflitti. Significativo è a questo proposito la ridefinizione di priorità attuata dal Pentagono nell’ottobre del 1999, in base a cui le forze militari americane di stanza nell’Asia centrale sono state trasferite dal Comando del Pacifico alla competenza del Comando Centrale. Tale nuova preoccupazione geopolitica è risultata evidente anche dalle missioni intraprese sia dall’ex presidente Clinton (con il suo viaggio in Nigeria nonché con il pressante invito agli stati che si affacciano sul Mar Caspio di ac celerare la costruzione di nuovi oleodotti verso l’Europa e il Mediterraneo) sia dal neo-presidente Bush (l’incontro con il presidente messicano Vicente Fox al fine di incrementare il flusso di risorse energetiche tra Messico e Stati Uniti).

Le priorità dettate dagli approvvigionamenti energetici non mancano di influenzare anche la condotta della Russia di Putin, particolarmente interessata al controllo e alla stabilità dell’area caucasica, in particolare Cecenia e Daghestan. Ad avvalorare la necessità di questi mutamenti geostrategici intervengono inoltre le previsioni in base a cui nei prossimi dieci anni i il baricentro della produzione petrolifera è destinato a spostarsi progressivamente dal Golfo Persico al Mar Caspio, con nuovi paesi produttori emergenti come le ex-repubbliche sovietiche Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian.

Petrolio e gas naturale, ma anche una risorsa fondamentale come l’acqua, creeranno probabili condizioni di squilibrio. Già oggi molte regioni del Medio Oriente e del Sudovest asiatico fanno registrare riserve d’acqua insufficienti ai fabbisogni. La continua crescita della popolazione e la probabilità di progressive siccità determinate dall’effetto serra riprodurranno situazioni di scarsità d’acqua anche in altre zone del pianeta. A complicare ulteriormente il problema, gli approvvigionamenti d’acqua non obbediscono a confini politici, ma molti paesi si trovano a sfruttare in comune la stessa fonte: è il caso di Egitto e Sudan per il Nilo, di Iraq e Siria per l’Eufrate, di Israele, Siria e Giordania per il Giordano.

E ancora. In Angola e Sierra Leone si combatte oggi per il controllo dei diamanti. Nella Repubblica Democratica del Congo, ai diamanti va ad aggiungersi la lotta per lo sfruttamento del rame, mentre in alcune regioni del Sudest asiatico la posta in gioco sono le forniture di legno da costruzione. Basta poco, basta una semplice condizione di scompenso che si determina nell’approvvigionamento di beni di fondamentale utilità come questi per far scoccare le scintille dei conflitti del Duemila.