di Paolo Colonnello
inviato a GENOVA
La signora Ambra Gandusi, con la borsa della spesa in mano, svolta l’angolo della
piazza di Palazzo Ducale e rimane di sasso: «Belandi, ma cos’è sta roba?». La
«roba» è una parete di ferro a maglie strettissime alta quasi cinque metri che toglie
luce e taglia il fiato al respiro già corto del vicolo stretto di Salita Pollaioli. E’
il confine di Stato della cittadella da assediare, tirato su nella notte e alle prime luci
dell’alba. Metafora al metallo dei Grandi divisi dal mondo, è il muro di Genova che
taglia in due la città, annunciato, spiegato, disegnato per mesi sulle mappe e le
cartine.
Ma che adesso, mentre si staglia minaccioso sulla testa della gente, ricorda i ghetti e
i campi di concentramento e fa crescere d’improvviso il mugugno e la rabbia di una
metropoli sull’orlo di una crisi di nervi. Davanti alla donna, dieci metri più in
basso, un gruppo di operai con a fianco un drappello di poliziotti nervosi ha quasi finito
il proprio lavoro. Gli uomini agganciano con le corde l’ultimo pannello e iniziano a
tirare tutti insieme, mentre un altro, con il saldatore, si assicura che i ganci fissati a
dei tubi Innocenti tengano il peso.
E’ una scena medievale, una scena di guerra. E fa paura. La donna ha una vertigine
e con gli occhi umidi cerca gli altri genovesi che si sono fermati oltre la barriera e
come lei non riescono a credere che il cuore di Genova venga separato dal resto della
città. «E’ una scena che fa male - sussurra Ambra Gandusi -, è come se avessi
capito d’improvviso cosa provarono gli ebrei dei ghetti quando una mattina videro i
nazisti che li chiudevano nei loro quartieri». E come d’improvviso a tutti quanti
viene una gran voglia di fare avanti e indietro, di passare e ripassare per quell’unico
varco, munito di feritoia, che gli operai lasceranno aperto fino a domani sera.
La gente dei vicoli non aspetta nemmeno che le strutture vengano terminate, che le
pareti vengano innalzate. Vogliono passare, scoprono di avere impegni che mutano in
continuazione nell’arco di pochi metri e polizia e carabinieri faticano a
trattenerli, a spiegare che c’è il rischio che cada qualche bullone, che devono
aspettare che le porte vengano montate. I genovesi sembrano non voler più intendere
ragione. E’ una reazione psicologica, quasi infantile, ma piano piano aiuta a
ritrovare un po’ di calma. I più anziani si ricordano dei tempi di guerra. I più
giovani si lamentano del fatto che oltre le barriere, già da ieri la raccolta dei rifiuti
è diventata difficoltosa. Dall’altra parte della palizzata di ferro, Teresa,
direttrice di una galleria d’arte grafica, è dura: «E’ come assistere a un
funerale collettivo».
Scene e commenti che si ripetono quasi identici lungo gli oltre cento varchi dei vicoli
che vengono blindati per formare il confine della zona rossa, marcando così anche quello,
più evanescente della cosiddetta zona gialla, scomparsa dai piani della sicurezza ma
rinata dai disagi di chi, all’improvviso, ha scoperto che per far la spesa dal solito
verduraio, per il caffè dal solito barista, dovrà esibire un passi, oppure un documento.
O, più semplicemente, dovrà rinunciarvi.
Il più arrabbiato è un impiegato di banca che abita proprio al confine tra le due
zone, in vico Casana: «Questa storia non la sopporto più. Hanno fatto l’ordinanza
per togliere le mutande dalle finestre ma si sono ben guardati di farne una per tenere
aperti i negozi da una parte all’altra della zona rossa. Adesso che mi chiude anche
il Supersconto io che con i miei figli piccoli non mi potrò spostare, che faccio? Muoio
di fame?». Un prete, don Paolo, parroco della Basilica delle Vigne, al centro della zona
rossa, raduna qualche fedele e annuncia solenne: «Da venerdì suonerò le campane ogni
dieci minuti, lo spazio di tempo che passa perché nel mondo muoiano di fame 700
persone». E c’è chi infine si scopre un’anima da «tuta bianca» e giura che
anziché fuggire da giovedì parteciperà a tutti i possibili cortei.
Perché un conto erano i «new jersey» piazzati per strada l’altra notte, un
conto sono le gigantesche grate di ferro che da ieri mattina oscurano il cielo e danno al
centro storico quest’aria da grande prigione. «In questo momento - dice il sindaco
Giuseppe Pericu - la città sta provando sentimenti contrastanti: orgoglio per le cose
belle fatte e per i dibattiti in cui da oggi Genova sarà impegnata.
Ma anche un senso di scoramento per i presidi continui della polizia, per le grate e i
cancelli che ci separano in casa. Genova è stata sempre una città in pace, che da lungo
tempo non conosce scontri e mi auguro che le misure prese per la sicurezza del G8 siano
state decise in modo consapevole. A me, francamente paiono eccessive. Noi abbiamo lavorato
sul principio dell’accoglienza e vogliamo che prevalga sul resto. Dobbiamo guardare
avanti: quello che deve rimanere è una città profondamente rinnovata e impegnata
moralmente».
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