La Stampa 17 luglio 2001
Tirato su per isolare la zona rossa: «Ci sentiamo in un ghetto»

La città è spaccata: ecco il Muro di Genova


di Paolo Colonnello
inviato a GENOVA

La signora Ambra Gandusi, con la borsa della spesa in mano, svolta l’angolo della piazza di Palazzo Ducale e rimane di sasso: «Belandi, ma cos’è sta roba?». La «roba» è una parete di ferro a maglie strettissime alta quasi cinque metri che toglie luce e taglia il fiato al respiro già corto del vicolo stretto di Salita Pollaioli. E’ il confine di Stato della cittadella da assediare, tirato su nella notte e alle prime luci dell’alba. Metafora al metallo dei Grandi divisi dal mondo, è il muro di Genova che taglia in due la città, annunciato, spiegato, disegnato per mesi sulle mappe e le cartine.

Ma che adesso, mentre si staglia minaccioso sulla testa della gente, ricorda i ghetti e i campi di concentramento e fa crescere d’improvviso il mugugno e la rabbia di una metropoli sull’orlo di una crisi di nervi. Davanti alla donna, dieci metri più in basso, un gruppo di operai con a fianco un drappello di poliziotti nervosi ha quasi finito il proprio lavoro. Gli uomini agganciano con le corde l’ultimo pannello e iniziano a tirare tutti insieme, mentre un altro, con il saldatore, si assicura che i ganci fissati a dei tubi Innocenti tengano il peso.

E’ una scena medievale, una scena di guerra. E fa paura. La donna ha una vertigine e con gli occhi umidi cerca gli altri genovesi che si sono fermati oltre la barriera e come lei non riescono a credere che il cuore di Genova venga separato dal resto della città. «E’ una scena che fa male - sussurra Ambra Gandusi -, è come se avessi capito d’improvviso cosa provarono gli ebrei dei ghetti quando una mattina videro i nazisti che li chiudevano nei loro quartieri». E come d’improvviso a tutti quanti viene una gran voglia di fare avanti e indietro, di passare e ripassare per quell’unico varco, munito di feritoia, che gli operai lasceranno aperto fino a domani sera.

La gente dei vicoli non aspetta nemmeno che le strutture vengano terminate, che le pareti vengano innalzate. Vogliono passare, scoprono di avere impegni che mutano in continuazione nell’arco di pochi metri e polizia e carabinieri faticano a trattenerli, a spiegare che c’è il rischio che cada qualche bullone, che devono aspettare che le porte vengano montate. I genovesi sembrano non voler più intendere ragione. E’ una reazione psicologica, quasi infantile, ma piano piano aiuta a ritrovare un po’ di calma. I più anziani si ricordano dei tempi di guerra. I più giovani si lamentano del fatto che oltre le barriere, già da ieri la raccolta dei rifiuti è diventata difficoltosa. Dall’altra parte della palizzata di ferro, Teresa, direttrice di una galleria d’arte grafica, è dura: «E’ come assistere a un funerale collettivo».

Scene e commenti che si ripetono quasi identici lungo gli oltre cento varchi dei vicoli che vengono blindati per formare il confine della zona rossa, marcando così anche quello, più evanescente della cosiddetta zona gialla, scomparsa dai piani della sicurezza ma rinata dai disagi di chi, all’improvviso, ha scoperto che per far la spesa dal solito verduraio, per il caffè dal solito barista, dovrà esibire un passi, oppure un documento. O, più semplicemente, dovrà rinunciarvi.

Il più arrabbiato è un impiegato di banca che abita proprio al confine tra le due zone, in vico Casana: «Questa storia non la sopporto più. Hanno fatto l’ordinanza per togliere le mutande dalle finestre ma si sono ben guardati di farne una per tenere aperti i negozi da una parte all’altra della zona rossa. Adesso che mi chiude anche il Supersconto io che con i miei figli piccoli non mi potrò spostare, che faccio? Muoio di fame?». Un prete, don Paolo, parroco della Basilica delle Vigne, al centro della zona rossa, raduna qualche fedele e annuncia solenne: «Da venerdì suonerò le campane ogni dieci minuti, lo spazio di tempo che passa perché nel mondo muoiano di fame 700 persone». E c’è chi infine si scopre un’anima da «tuta bianca» e giura che anziché fuggire da giovedì parteciperà a tutti i possibili cortei.

Perché un conto erano i «new jersey» piazzati per strada l’altra notte, un conto sono le gigantesche grate di ferro che da ieri mattina oscurano il cielo e danno al centro storico quest’aria da grande prigione. «In questo momento - dice il sindaco Giuseppe Pericu - la città sta provando sentimenti contrastanti: orgoglio per le cose belle fatte e per i dibattiti in cui da oggi Genova sarà impegnata.

Ma anche un senso di scoramento per i presidi continui della polizia, per le grate e i cancelli che ci separano in casa. Genova è stata sempre una città in pace, che da lungo tempo non conosce scontri e mi auguro che le misure prese per la sicurezza del G8 siano state decise in modo consapevole. A me, francamente paiono eccessive. Noi abbiamo lavorato sul principio dell’accoglienza e vogliamo che prevalga sul resto. Dobbiamo guardare avanti: quello che deve rimanere è una città profondamente rinnovata e impegnata moralmente».