Manifesto 11 luglio 2001 Movimenti
in giro per il mondo
MARIO PIANTA
Movimenti globali per la democrazia e la giustizia. Questo è il
nome che sembra più appropriato per le persone, i gruppi e le associazioni, di decine di
paesi diversi, che manifesteranno a Genova contro il vertice del G8. Per i titoli dei
giornali, possiamo abbreviarlo in movimenti globali ma, per favore, smettiamo di
chiamarli anti-globalizzazione. Sono radicalmente opposti alla globalizzazione neo-liberista,
ma reclamano dagli stati una globalizzazione dei diritti e praticano
quotidianamente una globalizzazione dal basso fatta di relazioni con gruppi di
tutto il mondo, di rapidissimi scambi di idee e di campagne, di reti globali di azione e
organizzazione. Sono differenziati, diversi e un rapida evoluzione, quindi il plurale qui
è d'obbligo.
E' un errore anche chiamarlo popolo di Seattle: come i lettori del manifesto
sanno bene (si vedano gli articoli di Giuseppina Ciuffreda su il manifesto del 19
giugno, 27 giugno e 1 luglio) si tratta di movimenti cresciuti dalla fine degli anni '70,
con i primi forum delle organizzazioni non governative accanto aivertici Onu su ambiente e
diritti; il primo controvertice del G7 è a Londra nel 1984 con The Other Economic
Summit; centomila persone manifestano nel 1988 a Berlino contro il Fondo Monetario,
saldando la tradizione della nuova sinistra tedesca con il pacifismo e le iniziative di
solidarietà col Terzo Mondo. A Seattle, undici anni dopo, c'era la metà delle persone e
cento volte più telecamere, ma l'agenda di allora (debito, speculazioni finanziarie,
sottosviluppo, fame) non è così diversa da oggi. Sette anni fa c'è stato un altro
controvertice del G7 a Napoli (anche allora subito dopo una vittoria elettorale di
Berlusconi) e al posto del Genoa Social Forum c'era il Cerchio dei popoli, con
cinquanta associazioni che aderivano, tre giorni di Forum per capire la globalizzazione,
una convention dei movimenti di tutto il mondo e per finire una manifestazione di
diecimila persone. Basta rileggersi Il manifesto di allora (3-9 luglio 1994) o
vedere giornali come Onde lunghe che fecero uno speciale sul controvertice. A
Genova saranno forse venti volte di più, ma la struttura della protesta non è cambiata.
Dietro i nomi, le cose. Sono movimenti globali, espressione dell'emergere di
una società civile sempre più capace di lavorare attraverso i confini nazionali.
E' un mondo di associazioni nazionali, gruppi locali e reti internazionali che si
definisce in contrapposizione alle sfere dell'economia e della politica, in
contrapposizione al neo-liberismo che le ha unite, ma che resta fuori da qualunque logica
di supporto (o ricambio) della politica istituzionale. Proprio la loro dimensione globale
rafforza come mai prima l'autonomia di questi movimenti e la loro capacità di
sottrarsi all'integrazione subalterna nelle dinamiche della politica e dei partiti
nazionali.
Per questo è clamorosamente fuori bersaglio ogni analisi che li inscriva in un contesto
solo nazionale: non li si può ridurre a uno scossone della sclerotica vita politica
italiana, all' emergere di un nuovo ceto politico che abiti i vecchi palazzi, anche se
troppi già si affrettano a trasferirne le conseguenze in termini degli angusti equilibri
politici di casa nostra, scambiando magari, come sta avvenendo, la tuta bianca con la
giacca da assessore o consigliere comunale.
Ma il fondamento più radicale dell'autonomia dalla politica di questi movimenti globali
sta nella loro nuova capacità di produzione diretta di politiche che, per
diventare "egemoniche", non hanno più bisogno delle mediazioni del sistema
politico nazionale. Ad esempio la campagna sul debito, iniziata negli anni '80, rilanciata
da Jubilee 2000 e aperta in Italia con l'"Assemblea dell'Onu dei popoli"
del 1997 e il lancio della campagna "Sdebitarsi", ha conquistato un'egemonia
grazie alla diffusione delle iniziative nella società civile, all'attenzione dei media,
alla conquista del mondo cattolico, a una decina di controvertici del G7, del Consiglio
europeo e del Fondo monetario e di summit regionali in cinque continenti. L'attenzione
delle forze politiche e la legge approvata dal Parlamento un anno fa sono il risultato e
non la premessa di quel (parziale) successo.
Lo stesso sta avvenendo con la campagna per la Tobin tax, diffusa in decine di
paesi con i gruppi nazionali di Attac e mobilitazioni di associazioni e movimenti. Due
anni fa al Parlamento europeo, una risoluzione per la Tobin tax venne bocciata per
pochissimi voti, quelli dei trotckisti francesi che dichiaravano: "non siamo qui per
migliorare il capitalismo". La rinuncia dell'Ulivo la settimana scorsa a mantenere la
richiesta della Tobin tax nella propria mozione sul G8 è un'ennesima conferma
dell'incapacità della politica (anche a sinistra) di comprendere, esprimere e collegarsi
alle politiche che esprime la società civile globale.
Ancora più che nei temi economici, l'autonomia e la capacità di produrre politiche è
evidente nei percorsi di questi movimenti sui temi ambientali e pacifisti. Dal vertice Onu
di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992, le reti globali di organismi non
governativi, e organizzazioni globali come Wwf e Greenpeace hanno condizionato
pesantemente l'agenda di tutte le questioni ambientali del pianeta, dal protocollo di
Kyoto sulla riduzione delle emissioni inquinanti, agli aspetti ambientali legati al
commercio, dagli organismi geneticamente modificati ai problemi dell'energia. I governi si
sono limitati, nel migliore dei casi, a prendere atto degli esiti degli scontri tra centri
di potere globale (compresi gli stati più ricchi) e reti di società civile, a cui la
politica nazionale non è mai stata capace di collegarsi. Anche quando lo scontro è stato
direttamente contro le imprese multinazionali più irresponsabili (ricordiamo la vicenda
dell'eliminazione della piattaforma della Shell nel Mare del Nord che portò al
boicottaggio organizzato da Greenpeace e alla capitolazione dell'azienda) la sfera della
politica non ha avuto un ruolo rilevante.
Stesso meccanismo nel caso della pace. In un decennio di conflitti nei Balcani, compresa
la guerra della Nato contro la Repubblica Jugoslava di Milosevic, l'opposizione è venuta
da una società civile che da anni pratica relazioni dirette con i gruppi antinazionalisti
e solidarietà con le vittime di tutti i paesi dei Balcani. Mentre la politica, compresa
quella del governo D'Alema in Italia, veniva schiacciata dalla logica militare della Nato
(il cui fallimento è misurato ora dall'estensione del conflitto in Macedonia), le
proposte credibili di soluzione dei conflitti e di ricostruzione della convivenza sono
quelle presentate in decine di iniziative e controvertici sulle due rive dell'Adriatico e
praticate sul campo, nella misura del possibile, dai gruppi pacifisti come il
"Consorzio italiano di solidarietà".
Una prova dell'autonomia di questi movimenti la troviamo anche su un tema tipicamente
italiano come la politica della spesa pubblica, in cui l' opposizione alle ricette
neoliberali di casa nostra è stata lanciata l'anno scorso da Sbilanciamoci, un
cartello di trenta associazioni che durante la discussione della legge finanziaria del
governo Amato ha presentato il suo primo rapporto sulle alternative possibili in campo
sociale, ambientale, di politica estera e di pace. Ora, con il governo Berlusconi, il
lavoro della campagna si sta estendendo: un primo documento alternativo uscirà subito
dopo il Dpef del governo, il nuovo rapporto sarà pubblicato in autunno e si prepara una
rete di iniziative in tutta Italia (www.lunaria.org/sbilanciamoci).
Ma chi sono le persone che danno testa e gambe a questi movimenti? Che interessi hanno,
quali obiettivi? Una novità di fondo è che i movimenti globali non chiedono cose
"per se stessi", non sono più soggetti sociali che difendono i propri
interessi particolari. Difendono gli interessi di gran parte dell'umanità, il futuro del
pianeta, il bene comune. Richieste di per sé radicali, difficili da mediare, e che
rendono facili alleanze transnazionali molto estese, ma che consentono spazio anche per
pratiche riformatrici.
Gli interessi di questi soggetti si richiamano alle categorie forti della giustizia
e della democrazia. La richiesta di giustizia, in un'economia globale sempre più
ingiusta, è il filo ricorrente che tenta di ricucire le divisioni tra nord e sud del
pianeta, tra sviluppo e ambiente, tra generi e tra generazioni. In parallelo, i movimenti
globali pongono il problema della democrazia a scala sovranazionale come strumento
per decidere sui problemi di tutti. Due rivendicazioni "generali", che svelano
agevolmente l'ingiustizia delle politiche del Fondo monetario internazionale e la non
democraticità del G8, ma che sono ben più difficili da declinare quando si tratta di
fare proposte per cambiare politiche e istituzioni di rilievo globale.
La radicalità del "bene comune" rende più difficili i tentativi si indebolire
i movimenti attraverso la concessione di piccoli risultati e la cooptazione dei gruppi
dirigenti da parte dei centri di potere, anche se questa è una strada già tentata da
governi e istituzioni sovranazionali. Ma in questo caso la radicalità non si esaurisce in
un velleitario rivendicazionismo, ma si intreccia a continue richieste di riforme
incrementali, di cambiamento di politiche concrete, un meccanismo che non elimina le
contrapposizioni tra associazioni e gruppi riformisti e radicali, ma che delinea una
inedita e feconda commistione tra questi due approcci. Tutti questi sono ulteriori
elementi che suggeriscono che il ciclo di mobilitazione dei movimenti globali non è
destinato ad esaurirsi presto, né a perdere di radicalità.
Solo uno sguardo distratto può pensare che la fiammata della mobilitazione di Genova si
spenga con le vacanze dei manifestanti. O che i movimenti restino subalterni agli eventi
mediatici che scandiscono la politica globale. Il calendario dei prossimi mesi è
fittissimo e sono sempre più numerosi i "controvertici senza vertici", come l'
"Assemblea dell'Onu dei popoli" di Perugia dall' 8 al 14 ottobre 2001, seguita a
novembre a Roma dall'incontro al vertice Fao sull'alimentazione, cinque anni dopo il
summit Onu e poi la seconda edizione del World social forum di Porto Alegre (a
febbraio 2002), mentre si moltiplicano le proposte per la creazione di Assemblee mondiali
di Ong e società civile, anche nell'ambito del sistema delle Nazioni Unite.
Sono questi i riflessi dell'esigenza di rendere più estese, stabili ed efficaci le reti
globali che legano i movimenti e di avviare processi democratici anche nei meccanismi di
decisione e realizzazione delle campagne globali. Ed è questa la strada su cui i
movimenti globali continueranno a crescere, producendo, rapidamente, nuovi risultati.
La lista dei successi, dopotutto, è già folta, dalla rinuncia all'"Accordo
multilaterale sugli investimenti" all'Ocse, al fallimento del Millenium Round
dell'Organizzazione mondiale per il commercio a Seattle, dal dibattito sui controlli dei
movimenti dei capitali dopo la crisi asiatica e le politiche di paesi come la Malesia,
alla decisione di Sudafrica e Brasile di sfidare le multinazionali farmaceutiche sui
farmaci per l'Aids, dalle decisioni europee su organismi geneticamente modificati al
cambiamento di strategie di grandi imprese come Shell, Nike, Chicco, di fronte a proteste
e boicottaggi.
Perché questo è il nuovo modo di fare politica in un mondo globale, anzi, di fare
politiche. Per cambiarlo, naturalmente.
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