Manifesto 13 luglio 2001 Grandi
sì, ma nei guai fino al collo
La globalizzazione? Non è che distrugge il
sociale. E' che proprio non funziona
GIULIETTO CHIESA
Tra una settimana circa i sette
"grandi" più l'Unione Europea (e la Russia che non c'entra niente con loro)
s'incontrano a Genova in una situazione che non ha precedenti nell'ultimo decennio.
Dove sta la novità? Nel dato che l'economia mondiale è in recessione. A Okinawa, l'anno
scorso, i segnali c'erano già tutti, con i primi crolli del Nasdaq del marzo 2000. Ma i
"grandi" del mondo fecero mostra che tutto andasse bene. Ancora sembravano
credere alle fantastiche previsioni di rilancio formulate da quei mattacchioni del Fondo
Monetario Internazionale alla fine del 1999.
S'impone qui una domanda. Com'è possibile che i centri del potere finanziario prendano
cantonate della portata di un 3% quando pronosticano la crescita mondiale? Un droghiere
che facesse errori di questo tipo andrebbe in fallimento. Loro no. Ma forse non si
sbagliano, mentono. A Genova dovrebbero - lo faranno? - dirsi qualche verità. Difficile,
anche perché riconoscerla significherebbe mettere la sordina agli inni sulla
globalizzazione che ci hanno propinato negli ultimi dieci anni.
La globalizzazione "americana" - quella concreta che stiamo sperimentando tutti,
a nostre spese - non funziona. Non è che sia iniqua, diseguale, predatoria eccetera.
Questo è un altro discorso. Non funziona nel senso che non tiene insieme il mondo,
nemmeno economicamente, nemmeno finanziariamente. Non parliamo del socialmente. Se
funzionasse non saremmo dove siamo. E cioè nel secondo trimestre consecutivo di caduta
dell'economia Usa. Che, tecnicamente, significa recessione. Peggio. Nelle precedenti
"frenate" americane, l'ultima del '90-'91, c'erano Giappone e Europa a tirare.
Adesso il secondo trimestre di questo anno nero annuncia una frenata simultanea delle tre
maggiori economie del mondo. Morgan Stanley Dean Witter pronostica adesso una
"recessione globale dei commerci": da +13% nel 2000 a +4% nel 2001.
Si pensava che l'Europa, anche in virtù della sua resistenza alle più ossessive forme di
imitazione degli Stati uniti, fosse relativamente al riparo. Dicevano gli esperti: in
fondo l'80-90% del suo commercio di beni e servizi si muove all'interno dei suoi confini.
Ma si dimenticavano, gli esperti, che globali non sono le economie, nemmeno quella
americana: lo sono i mercati finanziari. E, quindi, non c'è riparo per nessuno da quando
le istituzioni di Bretton Woods (sede del cosidetto "consenso washingtoniano")
hanno costretto tutti a "liberalizzarsi". Ha funzionato? Per un po' ha
funzionato (per gli Stati uniti, s'intende, unico paese al mondo che invece di perdere
sovranità l'ha aumentata). Ma ha creato una serie di effetti mondiali che sono divenuti
al tempo stesso assurdi e incontrollabili per tutti.
Come ha scritto bene Oskar Lafontaine - e per queste idee eretiche perse il posto di
ministro delle finanze - si è aperta così una fase di instabilità crescente dei mercati
finanziari. E una serie di gravissimi squilibri hanno lacerato il pianeta. Negli Stati
uniti l'effetto è stato di creare una enorme capacità produttiva associata alla peggiore
distribuzione di reddito tra tutti i paesi avanzati. Per convincersene, leggere quel
rivoluzionario barricadero di Edward Luttwak ("La dittatura del capitalismo").
Adesso "c'è un'offerta eccessiva di quasi tutto" (Gary Shilling). La capacità
produttiva di computer Usa è cresciuta del 40% annuo. La domanda è ora molto meno della
metà. Da qui al 2002 si produrranno circa 80 milioni di auto, ma si sa già che se ne
potranno vendere non più di 60 milioni. L'industria del mondo "gira" al 66%
delle sue possibilità (il minimo dell'ultimo decennio). Il 60% della capitalizzazione di
Wall Street è rappresentato dalla new economy, ma in un anno il Nasdaq ha perso oltre il
65%. Le imprese Usa sono indebitate per 7.000 miliardi di dollari. Vogliamo continuare?
Ma - dirà il maitre à penser Panebianco - siamo diventati tutti più ricchi.
Falso, naturalmente. Solo i più ricchi, dappertutto, sono diventati più ricchi. E lo
dice la Banca Mondiale. Nel 1985 c'eano 1,1 miliardi di persone sotto la soglia della
povertà, adesso sono 1,3 miliardi. Su 124 paesi (il 94% della popolazione mondiale) il
20% più ricco aveva dieci anni fa il 69% del reddito globale. Ora quel 20% ha l'83%.
Vogliamo continuare?
Ma - dirà ancora Panebianco, insieme a Brunetta - il mondo è cresciuto più in fretta e
tutti ne hanno tratto comunque qualche vantaggio. Falso, naturalmente. Il mondo è
cresciuto più lentamente di quando la globalizzazione americana non c'era. Cifre
ufficiali dell'Ocse alla mano, lo ha dimostrato Luciano Gallino ("Globalizzazione e
diseguaglianze"). E quanto vantaggio ne abbiano ricavato i più poveri lo dicono le
cifre del debito del Terzo Mondo, che era nel 1992 di 1300 miliardi di dollari ed è
salito a 2100 miliardi nel 2000. Con pagamenti di soli interessi che sono passati da 167
miliardi a 343 miliardi di dollari. Nel solo 1999 si è realizzato un trasferimento netto
di capitali di 23 miliardi di dollari dall'insieme dei paesi poveri e in via di sviluppo
all'insieme del paesi ricchi. Che ripagano dimezzando gli aiuti al terzo mondo.
Adesso, dopo questi meravigliosi risultati, l'autorevole "National Bureau of Economic
Research" di Washington mette in guardia, finalmente: "c'è la possibilità che
presto s'inneschi una recessione mondiale. Qualcuno dovrebbe dirlo ai consumatori
americani, i quali continuano ad aumentare - finchè dura - le loro spese in consumi
durevoli, ormai ipotecando casa e automobili e aumentando il già spaventoso indebitamento
delle famiglie del paese più ricco del mondo. Ma non si può dirglielo perché sono loro,
i consumatori americani, l'ultima speranza del mondo intero (e di Wall Street che è il
suo sottoinsieme più importante). Se smettessero di comprare all'impazzata - alla qual
cosa sono stati pavlovianamente condizionati - il crollo sarebbe di proporzioni
"secolari". Il 1929 sarebbe uno scherzo al confronto. E poi ci si stupisce se
George Bush straccia gli accordi di Kyoto?
In ogni caso l'atterraggio non sarà morbido. Alan Greenspan ha ridotto i tassi ben cinque
volte in meno di sei mesi, in tutto 2,75 punti. E non è bastato a rimettere in moto la
macchina. Bush diminuisce le tasse, ma non funziona. Perché ci sono limiti fisici che i
finanzieri del "consenso washingtoniano" non hanno voluto riconoscere: proprio
loro che parlano di globalizzazione come legge di natura.
Il fatto è che il grande boom americani di Clinton è stato possibile perché il
combustibile lo hanno offerto i capitali stranieri. Una sola cifra: il tasso di crescita
della capitalizzazione di Borsa Usa era nel 1994 dell'81%. Nel 1999 era salito al 184%
(dell'84% superiore al Pil americano). Altro che allocazione ottimale delle risorse
mondiali. Gli Usa raccolgono annualmente l'80% del risparmio mondiale. Ma spendono molto
di più, rilasciando, in cambio, certificati di debito (dollari) che non possono più
onorare. "Privilegio imperiale - ha scritto Frédéric Clairmont su Le Monde
Diplomatique - di cui nessun'altra nazione gode".
Come non vedere che quella che, fino a qualche mese fa, ci veniva additata come esempio da
seguire (e ancora ci sono schiere di Panebianco che, non essendosi accorti di nulla,
continuano a farlo) è invece un'economia malata, drogata, che, per "tirare",
necessita di iniezioni ricostituenti da 400-500 miliardi di dollari all'anno, tutti da
capitali stranieri?
Ripresa? Quando verrà nessuno è oggi in grado di prevedere. Ma sarebbe utile che a
Genova gli "8" si preparassero alla caduta. Nel senso di farcela pagare un po'
meno salata di come è stato fatto pagare al resto del mondo il "miracolo" degli
anni clintoniani. Ci vorrebbe - cito ancora Lafontaine - una nuova architettura
finanziaria mondiale. Ma senza gli Stati uniti non si può costruirla. D'altronde, con
questi Stati uniti, è tremendamente pericoloso, oltre che spaventosamente oneroso, andare
avanti. Chi degli altri sei o sette commensali di Genova avrà la forza di dirglielo,
educatamente, mentre fuori il popolo di Seattle (che non è certo meno informato di
Panebianco in tema di globalizzazione) cercherà di farsi sentire?
|