La Regione Ticino 12 luglio 2001

Entusiasmi e incertezze di un processo estremo
Gli effetti reali nell'analisi di un esperto di sociologia del lavoro

Agostino Fraquelli è docente di Sociologia del lavoro con esperienze accademiche negli Stati Uniti dove nella seconda metà degli anni Novanta ha aderito alle iniziative dell'International Forum of Globalization di San Francisco. D'origini lombarde, spesso in viaggio tra America ed Europa, ha più volte messo a disposizione la sua consulenza per l'organizzazione californiana ormai con ramificazioni in tutto il mondo. Professore, è possibile che questa voglia di globalizzare sia un fenomeno tipico della società di oggi o è possibile parlare di qualcosa di simile nella storia dell'umanità? «La globalizzazione in sé è un fenomeno perenne, quasi un istinto dell'uomo. Ogni popolo con i suoi esploratori ha cercato di scoprire, conoscere il pianeta prima e nel secolo scorso l'universo. Poi ha cercato di scambiare merci entro un raggio sempre più esteso fino a comprendere il mondo intero. Poi ha tentato di colonizzare i popoli vicini con le armi, la moneta, la cultura per arrivare ai popoli più lontani. é un processo normale che però ultimamente ha raggiunto misure estreme». La globalizzazione di oggi che cosa ha dunque di quella del passato? «Quella di oggi ha in sé tutte le caratteristiche precedenti alle quali ne aggiunge delle nuove. L'esempio per me più facile è quello degli Stati Uniti: per la prima volta un Paese potentissimo di fatto governa tutto il pianeta. Per la prima volta la strada dell'unificazione politica e materiale è spianata dai mass media e dalle reti telematiche». In che senso? «Ormai in tutto il mondo si vedono gli stessi film di Hollywood, si beve la stessa Coca Cola, si mangiano gli stessi hamburger di McDonalds, si usa lo steso programma windows, ci si collega allo stesso motore di ricerca, si parla lo stesso inglese e lo stesso spagnolo, si specula sulle stesse borse, ci si sfida agli stessi videogiochi». Non crede che questi elementi siano secondari rispetto ai problemi in gioco? «No, assolutamente. é proprio da queste semplici cose che parte tutto. Certo capisco cosa lei vuole dire ma l'universalismo e l'ecumenismo che prima riguardavano gli imperi politici, un paio di religioni e la lingua latina, oggi riguardano ogni aspetto della vita, dalla criminalità all'abbigliamento, dai profumi alle patatine, dal design ai medicinali e ai carburanti». Quali i riflessi di questa sua analisi sotto l'aspetto sociologico? «Tutto questo sortisce un effetto di plurima globalizzazione sulla sfera socioeconomica, nel senso che si attua una nuova divisione internazionale del lavoro, per cui quello che noi chiamiamo Primo Mondo mantiene il monopolio della ricerca scientifica e quindi del potere politico. Il Secondo mondo produce beni materiali e il Terzo Mondo è condannato al semplice consumo possibile attualmente svendendo materie prime, forza lavoro ovvero manodopera a bassissimo costo e, naturalmente, subordinazione politica». Questo significa che, diversamente da quello che avveniva nella società industriale dove il potere dipendeva dal possesso dei mezzi di produzione, oggi il potere dipende soprattutto dal possesso dei mezzi di ideazione? «Esattamente, e non potrebbe essere diversamente se gettiamo uno sguardo ai costi di produzione. Un'ora di lavoro in Europa - non mi riferisco alla vostra situazione in Svizzera che esce dai parametri - costa mediamente 24 dollari, 12 in Brasile, 7 a Singapore e Hong Kong, 1,5 in Malesia e Indonesia e 1 in Cina. Ne deriva una spinta al decentramento degli impianti aziendali del Primo mondo in quei paesi del Secondo Mondo che offrono maggiori garanzie di pace sociale, laboriosità, scolarizzazione e basso costo». Certo, ma non è cosa semplice lo spostamento di impianti industriali e catene produttive... «Se lo spostamento delle fabbriche dal Primo Mondo al Secondo Mondo presenta difficoltà pratiche dal punto di vista manageriale e culturale, nessuna difficoltà presenta lo spostamento di informazioni dai paesi ricchi a quelli poveri per ottenere un trattamento e un'elaborazione informatica a basso prezzo. Il tutto avviene in nome del libero mercato ma di fatto poggia su apparati multinazionali che cercano di mitigare, con accordi e scambi, la pericolosa fluidità della competizione globale». Quale è secondo lei la maggiore forma di globalizzazione? «Senza dubbio quella del consumo, con l'effetto di omologare i gusti e i bisogni su tutto il pianeta. Lei non ha l'impressione che ascoltando gli stessi suoni, annusando gli stessi odori i nostri sensi sono ormai globalizzati? Dopo il consumo, naturalmente, arrivano i massmedia, le scienze il denaro e la cultura. Ogni telegiornale contiene notizie, immagini e voci raccolte in tempo reale da tutto il mondo. Ogni laboratorio scientifico mantiene interscambi continui con altri laboratori. Altrettanto i mercati monetari che vedono spostarsi rapidamente, la proprietà delle imprese con il semplice passaggio di mano del pacchetto azionario». Gli effetti generati da una situazione come quella da lei descritta? «Siamo di fronte a una estrema forma di globalizzazione che agisce ormai a livello psicologico, quindi in maniera sottile e persuasiva che provoca le vertigini dell'onnipotenza ma rivela anche la nostra umana fragilità gettando l'intera società in una gara sempre più faticosa, con concorrenti sempre in maggior numero e senza troppi scrupoli che proprio per questo vedono aumentare il rischio di perdere la posta in gioco. Questa globalizzazione estrema, quindi, provoca reazioni schizofreniche che vedono la società da una parte godere delle sensazioni derivanti da quella che potremmo definire una sorta di ubiquità, dall'altra essere vittima di un profondo senso di insicurezza, Ecco dunque i tentativi, più o meno felici, di reazione. Alla base c'è il desiderio, a volte inconscio, di tornare alle proprie radici. Annullando gli effetti della globalizzazione è l'unico modo per riconquistare un'identità ormai perduta». In ultima analisi lei ritiene il processo di globalizzazione come qualcosa di assolutamente negativo? «No, questo non l'ho mai pensato. Credo però fermamente che per assumere i caratteri di un processo veramente costruttivo debba innanzitutto e al più presto raggiungere una concreta dimensione di interazione tra gli stati. Attualmente tutto è dipendente dal mondo dell'economia, il resto, dalla cultura all'effimero segue di conseguenza. Non può essere così, tanto più che è un'illusione credere che il mercato possa autoregolamentarsi. La mia esperienza statunitense mi ha insegnato che nessuna grande massa di esseri viventi riesce da sola a disciplinarsi. Il rimedio risiede solo in una saggia azione politica che onestamente preservi quelli che innegabilmente sono i vantaggi derivanti dalla globalizzazione e allo stesso tempo, creando un aperto dialogo con la società civile, ne illustri anche i rischi».