Corriere della sera 15 luglio 2001

Antiglobalisti, che cosa li divide

IL MERCATO CONTESTATO

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Ha fatto bene il governo, per opera soprattutto dei ministri Ruggiero e Scajola, a cercare di rompere il fronte dei contestatori del G8. Per una ragione soprattutto: e cioè che quel fronte è effettivamente diviso al proprio interno in due linee diversissime per origine e impostazione. La prima è una linea di forte segno ideologico radicale, erede di quel grande collettore di tutti i radicalismi che è stato il marxismo. Essa guarda al mercato non come a luogo principalmente di uno scambio, bensì come alla sede per antonomasia di un’oppressione sociale che oggi sarebbe specialmente l’oppressione del Nord ai danni del Sud del mondo. Vengono così raccolti e ripresi tutti i temi del terzomondismo classico degli anni ’60 e ’70, di fatto rivestendo la globalizzazione dei panni che un tempo erano dell’«imperialismo». E dunque, ad esempio, insistendo - esattamente secondo il punto di vista leninista, per l’ennesima volta ancora ieri confutato da Amartya Sen sulle colonne dell’ Herald Tribune - sull’inevitabile ulteriore impoverimento che attenderebbe i Paesi già poveri rispetto al sempre maggiore arricchimento di quelli già ricchi.
A differenza del passato (e di Lenin) gli antiglobalisti di oggi, però, evitano di sottolineare le complicità che legano importanti interessi delle nostre società non già al meccanismo capitalistico in quanto tale bensì a precise scelte di politica economica, molto più concretamente dannose per il Terzo mondo che non sia quel meccanismo preso di per sé. Scelte, tra l’altro, che non si ispirano per nulla al cosiddetto «liberismo selvaggio» ma semmai al suo esatto opposto. Gli antiglobalisti evitano per esempio di denunciare la massiccia politica protezionistica a favore dell’agricoltura che l’Unione Europea persegue da decenni e che rappresenta un ostacolo insormontabile per le esportazioni di tanti Paesi sottosviluppati che invece potrebbero trarre grande vantaggio dall’accesso ai nostri ricchi mercati.
Alla linea appena tratteggiata se ne affianca tuttavia un’altra, quella che chiamerei dei critici liberali della globalizzazione, a cui è difficile non riconoscere molte buone ragioni. E’ la linea che appunta le proprie riserve soprattutto all’assenza o alla rilassatezza delle regole di cui - grazie alla globalizzazione e alla concomitante impennata dello sviluppo scientifico-tecnico - le grandi imprese oggi godono specialmente in tre ambiti cruciali: il mercato del lavoro (con la possibilità di operare laddove non esiste la minima protezione legale per i diritti umani e sindacali), la manipolazione dei prodotti (con la relativa possibilità di introdurre modifiche nella loro composizione, in specie di quelli alimentari: vedi il problema degli organismi geneticamente modificati), l’ambito infine dell’indiscriminata gestione fiscale e finanziaria dei propri profitti (possibilità di fruire di paradisi fiscali e di operare trasferimenti speculativi su grande scala).
E’ la linea dunque che non chiude certo gli occhi di fronte al fatto che, lasciato a se stesso, il mercato può produrre molti mali e feroci diseguaglianze, specie in un mondo dove questi sono già così numerosi. Ma che è convinta, in armonia per l’appunto con la tradizione della democrazia liberale, che il rimedio possibile sia soltanto uno: la presa di coscienza e la mobilitazione dell’opinione pubblica (ad esempio anche nella forma delle associazioni di consumatori) affinché al mercato, come è sempre stato fatto, siano date regole in grado di farlo funzionare in maniera non distruttiva, assicurandone così, tra l’altro, la sopravvivenza storica. Ciò che serve, insomma, ciò che ci serve nella nuova fase dell’economia globalizzata è un di più di politiche democratiche e dunque un di più di democrazia politica. La violenza, qualunque violenza, avrebbe il solo effetto di rendere più difficili le une e l’altra.