La Repubblica 17 luglio 2001 I NEMICI
NASCOSTI
DEL MOVIMENTO
di CURZIO MALTESE
E' DIFFICILE credere che l'attentato di ieri, alla vigilia dell'atteso G8, sia stata
una provocazione dei soliti servizi segreti deviati, come suggerirebbe Vittorio Agnoletto,
il capo del Genoa Social Forum. In assenza di prove, le parole di Agnoletto ricordano un
po' troppo da vicino gli esercizi di sciagurata dietrologia che hanno salutato trent'anni
fa a sinistra la nascita delle Brigate Rosse. E' piuttosto vero, oggettivamente vero che
il criminale che ha confezionato la busta esplosiva è un nemico del movimento.
Anzi il più idiota ma anche insidioso dei nemici. Ed è quindi anzitutto un problema dei
contestatori isolarlo e combatterlo.
Il terrorismo è l'arma disperata e suicida dei movimenti sconfitti.
Al contrario, il popolo di Seattle è un movimento nascente, in forte espansione e già
per molti versi vittorioso.
A pochi anni o mesi dalla sua comparsa la cosiddetta area antiglobalizzazione ha costretto
i grandi della terra a riscrivere l'agenda di lavoro di questi vertici, a inserire
nell'ordine del giorno temi e proposte nate dal basso. L'elenco è lungo e va dalla
remissione del debito ai paesi del Terzo Mondo alla globalizzazione dei diritti (e non
soltanto dei mercati), a più seri e severi controlli sugli Organismi geneticamente
modificati.
In poco tempo il popolo di Seattle è riuscito a raccogliere l'adesione di grandi
importanti intellettuali, come Jeremy Rifkin e Noam Chomsky, e Premi Nobel.
Il successo del movimento è del resto testimoniato da queste settimane che hanno
preparato l'appuntamento di Genova, dall'atteggiamento che i media hanno tenuto
privilegiando le ragioni dei contestatori rispetto alle decisioni attese da parte delle
otto potenze. Un esito così felice di un movimento nato dal basso non ha precedenti nella
storia recente, neppure nell'inevitabile paragone con il '68. Ma se i popoli di Seattle
sono riusciti in quest'impresa non è stato certo per l'eco degli scontri con la polizia o
per le iniziative dei gruppuscoli più violenti. È stato, naturalmente come ovvio, per la
forza delle idee.
Le ragioni della popolarità del movimento antiglobal sono probabilmente più semplici di
quanto si sia detto. Nonostante i molti luoghi comuni sparsi a piene mani da
un'informazione a volte servile, le opinioni pubbliche hanno intuito che il senso della
contestazione, pur con le sue mille contraddittorie anime, risiede in una democratica
ribellione all'idea di un supergoverno della terra che non risponde ad alcun controllo.
Non dunque una rivolta contro la globalizzazione, che è inevitabile come lo era la
rivoluzione industriale, ma contro un preciso tipo di globalizzazione. Un modello di
globalizzazione che del resto è già entrato in crisi.
Nati nel deserto di una politica sottomessa al potere economico, i popoli di Seattle hanno
saputo raggiungere una enorme audience popolare perché hanno saputo fare quello che la
politica non sembra più in grado di fare. Ovvero parlare della vita quotidiana,
combattere i sentimenti di esclusione dai grandi processi decisionali che non tocca
soltanto i dannati della terra ma anche la maggioranza dei cittadini dei paesi ricchi. E
quindi spingere tutti a interrogarsi su che cosa significhi in concreto la globalizzazione
nella vita di tutti i giorni nel nostro modo di entrare in relazione con gli altri, nel
mercato del lavoro, perfino in quello che portiamo sulle nostre tavole.
Questo piccolo miracolo politico era impensabile nel clima culturale asfittico di pochi
anni fa, quello dominato dalle ciniche parole di un Fukuyama («la guerra contro la
povertà è finita. E i poveri l'hanno persa»).
Ma è un miracolo fragile, sottoposto com'è al ricatto di piccoli gruppi di violenti e la
voglia di demonizzazione di buona parte dei media. Agnoletto dovrebbe riflettervi, invece
di rifugiarsi in autolesionistiche dietrologie. |