La Repubblica 18 luglio 2001 Blair:
"Non siamo tiranni
risposta dura contro i violenti"
l'intervista
ANTONIO POLITO
LONDRA - Tony Blair è un po' pallido. Quando gli chiedo se si intende rifarsi anche
quest'anno al sole della Toscana, mi risponde con una smorfia che vuol dire: mi piacerebbe
tanto, ma temo proprio di no. Doveri patriottici lo costringono stavolta a vacanze
autarchiche, nella campagna inglese, meglio ancora se vicino a un focolaio di afta
epizootica. Né ha speranze di abbronzarsi nel prossimo weekend genovese, che passerà
segregato con gli altri sette leader del mondo, quasi assediato da "zone rosse"
e "blocchi neri". Quello che lo aspetta a Genova non gli piace, e lo dice
chiaramente in questa prima intervista con la stampa straniera dopo il successo alle
elezioni. Rispondendo alle domande di Repubblica (presenti anche New York Times,
Washington Post, Asahi Shimbun, Frankfurter Allgemeine e Figaro), Blair lancia un
messaggio al nostro governo, invitandolo a «non cedere un millimetro ai gruppi violenti,
totalmente antidemocratici»; difende la globalizzazione dai «messaggi sbagliati» della
protesta; si dice «contrario alla Tobin tax», cavallo di battaglia dell'Ulivo; e spiega
perché un leader della sinistra europea come lui ha trovato «un terreno comune» col
governo Berlusconi.
Il summit di Genova si svolgerà su una nave ben distante dai dimostranti. Il governo
canadese sta pensando di ospitare il prossimo sul cocuzzolo di una montagna. I leader del
mondo sono costretti a rifugiarsi dietro barriere di ferro, separati dalla gente che essi
stessi rappresentano. Non è un bello spettacolo per la democrazia...
«E' una situazione molto triste. Ma è bene mettere in chiaro di chi è la
responsabilità. La ragione per cui ci sono tante misure di sicurezza è che c'è una
minaccia alla sicurezza. Il modo in cui noi governanti prendiamo decisioni è democratico:
presentiamo programmi, partecipiamo alle elezioni, siamo eletti dal popolo. Queste
proteste di strada invece non sono solo poco assennate, perché noi ci riuniamo per
discutere questioni che sono vitali per il mondo; ma sono anche totalmente
antidemocratiche quando si abbandonano alla violenza. E io penso che noi politici siamo
anche troppo apologetici nei loro confronti, quasi ci dovessimo scusare. Certo che mi
piacerebbe andare a Genova e passeggiare per le strade con la gente comune, come ho fatto
tante volte e con grande piacere in Italia; ma se non posso non è per colpa mia. E'
perché, affianco a chi vuole dimostrare pacificamente, c'è gente che viene per causare
problemi e che è pronta a usare la violenza, come abbiamo visto a Goteborg. Voglio essere
molto franco e brutale: una gran parte dei messaggi che vengono da queste proteste sono
semplicemente sbagliati. Non è la globalizzazione la minaccia che incombe sul mondo.
Anzi, la crescita del commercio globale è parte della risposta a molti problemi del
mondo, in particolare di quei paesi poveri che hanno disperato bisogno di accesso ai
mercati dei paesi sviluppati».
Lei ha detto che i governi non dovrebbero «concedere nemmeno un millimetro al circo
anarchico viaggiante». Invece il governo italiano ha tentato di negoziare con i
manifestanti anche alcune misure di sicurezza. Secondo lei è giusto?
«Parlare va bene, perché c'è tanta gente che verrà per dimostrare e protestare
pacificamente, ne ha pieno diritto, e non c'è niente di male a dialogare con chi li
organizza. Ma altra cosa è l'anarchismo di strada di alcuni gruppi, totalmente
antidemocratico. Questa gente non è eletta, non rappresenta nessuno. E io credo che il
governo italiano condivida la mia opinione che non bisogna concedere niente a chi pratica
la violenza. Dobbiamo cominciare a essere più chiari e fermi sulla natura di queste
proteste, anche perché sono lo specchio di un problema della democrazia moderna. C'è il
rischio che la gente finisca per credere che il modo migliore per essere notati non è il
dibattito democratico e razionale, ma la violenza. Se si va in strada e si inscena una
rivolta, si conquistano i titoli dei giornali e dei tg. Ci dobbiamo riflettere tutti,
politici e media. Gli incontri tra i leader del mondo sono importanti: certo non bastano a
risolvere i problemi, ma sono un ottimo mezzo per affrontarli. Non riesco a capire come si
possa pensare che discutere dell'Africa, o della creazione di un fondo mondiale per la
sanità, o di come cancellare una parte maggiore del debito del Terzo Mondo sia
sbagliato».
Il centrosinistra italiano ha proposto l'istituzione della cosiddetta "Tobin
tax" sulle transazioni finanziarie per assicurare una redistribuzione della ricchezza
su scala globale. E' d'accordo?
«No, non sono d'accordo con questa proposta, che non mi convince né in via teorica né
per ragioni pratiche. Il mondo ha bisogno di mercati che funzionino bene. C'è stata dopo
la crisi finanziaria del 1998 un'ampia discussione per mettere in piedi le strutture in
grado di prevenire quelle crisi; e questo è uno sforzo che merita di essere fatto. Ma noi
dobbiamo essere molto cauti in una tale materia. Capisco gli argomenti che sono dietro
questa idea, ma non posso dire che mi abbiano persuaso».
Lei è stato l'unico leader del centrosinistra europeo ad accogliere con un caldo
benvenuto il nuovo governo di centrodestra in Italia. Ha incontrato Berlusconi e ha detto
di aver trovato «terreni comuni» con lui. Per lei non c'è più differenza tra sinistra
e destra?
«No, io penso che questa differenza esista ancora. I valori sono differenti. E io sono
collocato nella tradizione di centrosinistra. Ma penso anche che ci sono aree in cui
possiamo lavorare in partnership con i governi di centrodestra: le riforme economiche in
Europa, la relazione con gli Stati Uniti, a proposito della quale sia io che Berlusconi
siamo molto favorevoli a una forte intesa tra Europa e America, e anche le questioni della
difesa. Ci sono tradizioni e politiche distinte, ma esistono terreni comuni. Le dirò una
cosa che mi crea sempre problemi ogni volta che la dico. Per me è chiaro che mentre il
900 vide divisioni fondamentali tra sinistra e destra, e spesso a mio parere
pericolosamente fondamentali, ciò che distingue nel nuovo secolo le politiche
"progressiste" da quelle "conservatrici" rimane sì significativo, ma
in un modo molto diverso. Insomma: oggi un cambio di governo non porta con sé una
rivoluzione. I fondamentalismi ideologici del Ventesimo secolo sono stati per molti
aspetti un'aberrazione. Per questo credo che una parte del mio lavoro sia cooperare con i
governi europei di qualunque colore politico essi siano, anche con quelli di centrodestra.
L'ho fatto con Aznar in Spagna, e dunque oggi dò importanza al rapporto di lavoro che ho
stabilito con Berlusconi, e mi auguro che possa proseguire».
Eppure in un discorso di non molto tempo fa lei disse che le "forze del
conservatorismo" erano il suo nemico numero uno. Lo pensa ancora?
«Sì. Il compito più importante oggi di fronte ai governi è produrre il cambiamento, in
un mondo che cambia esso stesso a tale velocità che se non ne tieni il passo cadi
all'indietro: dall'economia digitale, al lavoro e alla produttività, alla riforma dei
servizi pubblici. Quando parlo di forze conservatrici penso che esse possano trovarsi
anche a sinistra, così come a destra. Anche a sinistra c'è chi dice: ma insomma, questa
è la via che abbiamo sempre seguito fin dai tempi in cui costruimmo il welfare state, non
cambiamo, ogni cambiamento è un tradimento dei princìpi. Ma così facendo si frena il
progresso».
Si riferisce anche ai sindacati?
«Certo, anche i sindacati possono essere un freno. Talvolta lavoreranno con noi per
guidare il cambiamento, ma se gli resistono e ne rallentano gli effetti positivi sulla
vita della gente, allora bisogna combattere per superare quest'ostacolo».
Domani Bush è a Londra. Su scudo stellare e Kyoto c'è contrasto con l'Europa. Lei si
sente diviso tra la volontà di giocare un ruolo nella Ue e la "relazione
speciale" con gli Usa?
«No. Come alleatochiave degli Usa, noi tentiamo di costruire ponti di comprensione con
l'Europa. Non abbiamo ancora ricevuto nessuna richiesta ufficiale di supporto al prog |