La Repubblica 14 luglio 2001 LA LUNGA
MARCIA
di RENATA PISU
PECHINO - Ieri sera in città è scoppiata la gioia di popolo. Assordante, travolgente,
altro che lo scudetto alla Roma. Moltiplichiamo per diecimila, centomila, un milione, la
gioia romanista, avremo quella pechinese.
Forse non tutti si sentivano di gioire, di sventolare la bandiera con la stella gialla e
le cinque stelline delle minoranze nazionali - quella tibetana compresa - quanto mai
defraudate e, ieri, ufficialmente, internazionalmente, disconosciute. Comunque, chiunque
fosse contrario a questa legittimazione olimpica non lo ha dato a vedere, sarebbe stato
linciato.
In effetti, il regime ha fortemente voluto i Giochi ed ora si teme che possa continuare a
gestire il potere come ha sempre fatto, cioè in barba al rispetto dei diritti umani,
calpestati negli ultimi tempi più che mai, come se ai vertici ci si fosse cinicamente
resi conto che l'opinione pubblica internazionale «buonista», è una cosa, altra cosa
sono le istituzioni internazionali: il Wto, il Cio, tutti dalla parte di chi comanda, per
calcoli che di certo non prendono in considerazione nessun diritto se non quello del
business nella sua globalità, in questo gioco un tempo napoletano ma ormai planetario del
«io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me».
Staremo a vedere, ci sono sette anni da qui al 2008, quanto la «razza padrona» cinese
che ormai è entrata a gonfie vele nel partito comunista che, da un mese appena, si dice
partito di tutto il popolo, non di una classe, e che potrebbe anche cambiare nome,
diventare, chissà, Partito socialdemocratico è disposto a dare. Non a noi, non
all'opinione pubblica internazionale che, per i cinici, poco conta, ma alla sua gente, ai
cinesi. Soprattutto a questi scafatissimi pechinesi che, per essere al centro dell'Impero,
ne hanno viste e ne sopportano di tutte. Anche loro cinici come i loro governanti, ma più
spontanei, senza grandi calcoli perché non hanno molto da perdere se non le «loro
catene». Ma, ormai, qui a Pechino, sono catenine alla caviglia, anelli al naso di gran
moda, voglia di consumare consumare consumare e, soprattutto, «esserci» come
protagonisti, come già tentarono nel 1989 a Tienanmen. «Se non avessimo avuto le
Olimpiadi sarebbe stato buon gioco, da parte del regime, parlare di complotto
internazionale, aizzare la xenofobia, il nazionalismo mi ha detto ieri un sociologo ex
membro dell'Accademia delle Scienze, ex tutto perché «democratico» e, perciò, ormai
esautorato, inascoltato. È stato lui a consigliarmi di vivere la notte delle Olimpiadi da
pechinese, e così ho fatto.
Non sono andata nel tradizionale cuore di Pechino, a Tienanmen, perché lì non avevano
predisposto maxischermi per seguire in diretta l'assegnazione dei giochi: si sarebbe
radunata troppa folla e, se il verdetto fosse stato un «no», avrebbe potuto accadere di
tutto. Ero in un cuore più piccolo, dove si paga per entrare e mangiare la polpetta
globale. Ebbene sì, lo confesso, assieme a centinaia di cinesi che poi sono diventati un
migliaio, forse più, ero nel grande McDonald's della via Wangfujing, zona pedonale, a
mangiare hamburger con patatine fritte e bere coca cola, come una cinese qualunque.
Perché è lì che la gente va, piaccia o non piaccia a noi, è lì, nello spiazzo dove la
Nestlè ha aperto un chiosco con tavolini, lì dove un'enorme insegna della Fuji Film
illumina la notte, che si sono radunati i popolani pechinesi. Perché lì tutti questi
simboli tangibili di consumo e di multinazionali trionfanti, danno la sensazione a chi
aveva paura di venire escluso, di dover subire ancora una «umiliazione», di essere
cittadino del mondo. Quale mondo poi sarà, da qui al 2008, non ci è dato saperlo.
Comunque, ieri a Pechino era così: un pigia pigia alla cassa, vassoi pericolanti, gli
occhi di tutti fissi al televisore nella sala grande al pianterreno che trasmetteva in
diretta da Mosca; chi aveva trovato posto al piano superiore si affacciava alla balaustra
per guardare giù, altri affollavano la scala a grappoli, impedendo il passaggio, e così,
alle 10 meno 10, gli inservienti avevano smesso di servire per formare un cordone di
sicurezza che poi è stato rinforzato dalla polizia, uomini e donne sorridenti, senza
manganello, ma utilissima presenza perché c'era da aver paura per tutta quella marea di
gente pacifica ma eccitata e ansiosa. Tutti si scambiavano battute. C'era chi diceva: «Ma
no, tranquilli, non ce la facciamo», tanto per scaramanzia. Chi invece, più vicino al
televisore ma tanto non si sentiva niente lanciava falsi allarmi. E allora tutti a
sventolare le bandierine con su scritto «McDonald's Pechino città olimpica» e una voce
dall'altoparlante interno, aziendale, li zittiva: «Calma... calma...».
Alle 10.10 in punto però è scoppiata la gioia, assordante, emozionante, tamburi,
cimbali, coriandoli, abbracci, baci. Un bacio bellissimo, un lui e una lei in pantaloncini
corti che, davanti a tutti, hanno dischiuso le labbra, congiunto le lingue, bacio
olimpico, quindi accolto da applausi in un paese ancora tanto puritano. «Un bacio proprio
come nei film americani», ha mormorato una dodicenne seduta accanto a me accompagnata
dalla madre la quale ha sorriso, donnina dimessa, chissà se sessualmente mai appagata,
comunque visibilmente contenta di vivere in un paese dove, ormai, ci si può baciare
così, in pubblico, il che vuol dire che siamo maturi, siamo grandi, siamo come tutti gli
altr i. Finalmente!
Alle 10.10 è scoppiata la gioia, ma prima, che batticuore, che tensione... Fuori dal
locale una bellona truccatissima, era appiccicata alla vetrina e aspettava, gli occhi
gonfi come se avesse pianto o stesse per farlo. Un mutilato, a giudicare dall'età di
certo di lavoro, non di guerra, agitava il suo unico braccio, il sinistro, implorando che
si facesse silenzio. Tremava tutto, come uno sciamano in trance. Quattro ragazzi vestiti
di nero con i pattini ai piedi, sono entrati rumorosamente nel McDonald's alle 10 meno 20,
ultimi clienti ammessi. Gli ho offerto le mie patatine, felici hanno detto: «Sei
italiana? Forza Roma!». Mi avessero detto «Forza Italia!» li avrei snobbati un po',
anche se loro non credo possano sapere. Comunque gli ho risposto: «Forza Pechino!», che
non è come dire «Forza Cina!». È una speranza, una scommessa globale in questa città
devastata dal «nuovo» che promette di fare di tutto per diventare vivibile in tutti i
sensi da qui al 2008. E per tornare in albergo ci ho messo tre ore, perché tutti, in
corteo, si dirigevano a Tienanmen, la Porta della Pace Celeste. La Porta della Pace
Olimpica? |