La Repubblica 18 luglio 2001

LA POSTA IN GIOCO
NELLE PIAZZE DI GENOVA

di EZIO MAURO


IL GRANDE choc mediatico del G8 ha finalmente portato anche l'Italia dentro la questione della postmodernità, che per convenzione definiamo ormai tutti, nel Nord come nel Sud del mondo, come il tema della globalizzazione.
Ad uno ad uno, senza bisogno di una rivoluzione, senza nemmeno un voto tardivo di un Parlamento, senza un dibattito preventivo e senza infine la possibilità di misurare il consenso, stanno saltando i capisaldi della modernità, come l'abbiamo conosciuta e teorizzata, credendo che quei caposaldi fossero pressoché eterni e universali. Scopriamo che le nazioni sono diventate finzioni, che lo Stato territoriale sta perdendo potere e controllo, attraversato com'è da un fascio di relazioni, comunicazioni e organizzazioni che lo circondano e lo avvolgono, superandolo.
Per forza di cose, si svuotano e si inaridiscono le istituzioni che fino a ieri conoscevamo come sovrane, autorevoli, plenipotenziarie. E alla fine, proprio mentre credevamo dopo la caduta della diversità comunista, nell'Est, di aver universalizzato con il mercato anche i diritti dell'Occidente, la sua forma di vita e la sua forma politica - la democrazia - ci accorgiamo che dobbiamo riformulare tutti i concetti e rimodulare le garanzie, perché il globale supera il moderno, e lo mette in crisi.
Di fronte a una partita di queste dimensioni, è evidente che Genova rischia di passare alla storia come la sede dell'ultimo G8. E' inevitabile organizzare un tentativo di governance per la globalizzazione, per trovare un sistema di regole. Ed è evidente il deficit di democrazia e di rappresentanza, dunque di sovranità, che i Grandi portano con sé nelle stanze sbarrate di Palazzo Ducale.

Prima ancora che il vertice abbia inizio, dunque, i movimenti che si danno appuntamento nella piazza hanno già raggiunto il risultato di trasformare clamorosamente i Grandi del mondo in assediati, costretti alla continua ricerca di una legittimazione. E tuttavia la ‘democrazia degli Stati' non ha ancora saputo inventare nulla di diverso dai G8 ormai morenti. Si tratta del club informale, senza poteri e senza mandato, degli otto uomini teoricamente più potenti della terra, eletti ognuno democraticamente, portatori di consenso nazionale, sottoposti al controllo specifico dei loro parlamenti. Con loro siede al tavolo di Genova il massimo di potenzialità tecnologica, massmediatica, economica che il mondo possa oggi esprimere, ciò che la modernità chiama potere.
Eppure tutto ciò non basta a produrre nuova democrazia riconoscibile e riconosciuta, cioè regole condivise e accettate, o almeno una lettura consensuale della globalizzazione.
In realtà, se alziamo lo sguardo dalla platea spettacolare di Genova, la partita che si sta giocando non riguarda soltanto i Grandi e la piazza, il G8 e i suoi oppositori. C'è un moto ben più vasto di attenzione e quasi di empatia, se non proprio di simpatia, che circonda i movimenti antiglobalizzazione, e questo contesto è ben noto sia ai capi del movimento che ai Grandi sulla difensiva. Da che cosa nasce? Da un lato da alcuni luoghi comuni, o riflessi condizionati, o moti difensivi: la convinzione che globalizzazione significhi governo unico del globo, dunque pensiero unico, costumi e consumi unificati, mcdonaldizzazione dovunque e comunque, oppressione silenziosa delle diversità e delle specificità, a partire dalle culture locali, per insediare la cultura unica universale e vincente.
Dall'altro lato, da qualcosa di ben più vero, reale e concreto. Vale a dire il sentimento crescente di esclusione che il processo di globalizzazione porta con sé, per chi perde il lavoro, ma anche per chi è uscito presto dal processo produttivo e scopre che la sua dotazione di esperienza, le sue ricchezze di cultura, il suo peso di status non gli consentono di rientrare: oppure per chi passa dalla condizione di ‘incluso' a quella di ‘escluso' senza che il mondo attorno a lui se ne accorga, fuori dagli stereotipi di classe, dalle appartenenze di categoria, dalle difese sindacali o dalle rappresentanze politiche perdute: magari, come dicono gli studiosi della globalizzazione, per una malattia, o un divorzio, o uno sfratto, per uno scarto insomma di quotidiana e invisibile normalità.
Si avverte che il mondo è fuori controllo, come dice Anthony Giddens. Si capisce che è saltato il nesso tra ricchi e poveri, non sono più interdipendenti, con lo Stato nazione si è rotto anche il tavolo di pacificazione che li legava insieme, i primi non hanno più bisogno e nemmeno paura dei secondi, come spiega Zygmunt Bauman. Si sente l'azione di forze su cui i cittadini non hanno potere, e nemmeno le istituzioni, o l'autorità statale, come ripete Ulrich Beck. E tutto questo si percepisce singolarmente, autonomamente, separatamente - potremmo dire ‘da soli' -, fuori da ogni copertura e da ogni assicurazione, per la prima volta. Senza il mantello delle ideologie, per fortuna, ma anche senza il riparo della politica tradizionale.
Naturalmente la politica è anch'essa sotto choc mediatico, in Italia, e non potrebbe essere altrimenti. Onestamente, non c'è al momento una differenza apprezzabile nel nostro Paese tra l'approccio della destra e quello della sinistra al fenomeno globalizzazione, salvo il riflesso iniziale da parte del governo di vedere tutta la vicenda attraverso la lente di polizia (subito corretto dalla spinta al dialogo del ministro Ruggiero) e il tentativo di alcuni commentatori di rintracciare anche qui, in questi temi planetari, le impronte digitali del marxismo e del cristianesimo, ovviamente alleati senza saperlo in qualche sorta di Ulivo mondiale primigenio, e naturalmente colpevoli.
Ma i problemi che la globalizzazione pone non sono neutri, e nemmeno neutrali. Si capisce che Bush tolga la parola alla piazza dicendo che il popolo di Seattle non rappresenta i poveri (il problema è proprio qui: chi li rappresenta, o almeno chi li tiene al tavolo del sistema, oggi?), e si capisce anche che la sinistra sia più sensibile al tema dell'esclusione. Si capisce meno, molto meno, il passaggio repentino dei Ds, in due mesi, da sinistra di governo a sinistra di piazza: se avessero vinto le elezioni, i loro uomini o i loro alleati sarebbero a Palazzo Ducale con i Grandi, invece saranno in piazza, mentre la socialdemocrazia europea - con Blair, Jospin e Schroeder - si assume il rischio di trovare regole alla globalizzazione.
A ben vedere, la vecchia politica non ce la fa più, senza distinzione di segno. E come potrebbe? Non c'è più nulla di sacro, dunque di rappresentabile o interpretabile simbolicamente, perché domina il virtuale. Non ci sono archetipi, ma reti. Muoiono tutte insieme le tradizioni, dunque le storie che creano riconoscibilità e appartenenza, perchè ogni cosa è contemporanea, ubiqua, istantanea. E tuttavia, non tutto il risultato della globalizzazione - l'accumulo di esperienze, l'accumulo di esclusioni - si può scaricare nei due giorni di Genova, per poi cambiare canale.
Come ha spiegato il leader delle Tute Bianche, Luca Casarini, essere contro la globalizzazione non ha senso, è come dichiararsi contro una stagione, la primavera o l'estate. Bisogna leggere il fenomeno, capire il grande rischio - come dicono gli uomini della London School of Economics - che nasce quando le imprese transnazionali sottraggono agli Stati nazionali europei le cinque risorse fondamentali del capitale, dei posti di lavoro, delle tasse, delle tecnologie e degli investimenti portandoli là dove il mercato trova convenienza: scaricando però sulla rete dello Stato nazionale il costo dei servizi sociali, delle garanzie, dei diritti politici e civili, insomma del modello di vita europeo, del modello di modernizzazione.
Se questo è il vero rischio, si capisce che la globalizzazione non allarga solo nuove ineguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo, ma minaccia di rompere qui e ora, in Occidente, quello che a ragione si può chiamare ‘il contratto della modernità', cioè l'alleanza implicita tra economia di mercato, Stato sociale e democrazia.
Ce n'è abbastanza perchè una nuova politica ricominci? Tutte queste ragioni, l'inquietudine senza rappresentanti, le vecchie istituzioni da rilegittimare, le nuove da costruire, le garanzie sociali e addirittura il ‘patto' da riformulare nello schema globale, formano un patrimonio che non appartiene a nessuno, nei due fronti di Genova, perché riguarda tutti: e può essere messo in scacco soltanto dalla violenza, che può creare un contesto di autoesclusione, di nuova separatezza, di definitiva delegittimazione. Vista la posta in gioco, vale dunque la pena di fare ogni sforzo, da parte di chiunque abbia qualche responsabilità in questa partita, che a Genova comincia appena. L'alternativa è subire la globalizzazione rinunciando a governarla o a misurarla con la democrazia: magari ripetendo ogni giorno, inutilmente, che ‘il futuro non è più quello di una volta'.