Manifesto 13 luglio 2001 La
folle corsa dei reggiseni
Valcamonica, i produttori tessili in gara con
i "rivali" dell'est. Produci di più e sei pagato di meno. I nuovi sfruttati
della competizione globale
FRANCESCO LEITNER - BRESCIA
Un bel giorno sono arrivati anche i giornalisti
di Fortune, la rivista statunitense di finanza, per studiare e indicare il modello
tessile bresciano. Quello dei laboratori e del contoterzi, dei micro artigiani, pronti a
lavorare a ritmi incredibili, senza orari e a prezzi sempre più stracciati per stare
dietro alle commesse dei grandi marchi di abbigliamento. Ma qualcosa nel modello si è
inceppato e nel giro di pochi anni non è rimasto molto. In Valcamonica, in un'area di
circa trenta chilometri, si contavano fino a 500 laboratori di contoterzisti tessili che,
tra i padroncini, i familiari e le dipendenti, occupavano oltre 5 mila persone. Ne sono
rimasti neanche una ventina per circa duecento persone ancora al lavoro.
"Il sistema che ci ha fatto nascere e competere ai limiti della legalità è lo
stesso che ci ha fatto chiudere i battenti", avverte Dario, uno dei padroncini che
ancora tengono duro in mezzo a mille difficoltà. In Romania, Albania riescono a fare lo
stesso lavoro per un decimo dei costi, i grandi marchi ne hanno approfittato. E tanti
saluti a tutti. "Quando hanno chiuso le grandi fabbriche tessili, una ventina di anni
fa, qualcuno che ci lavorava pensò bene di acquistare i macchinari per mettersi in
proprio e vendere i capi ai marchi che potevano esternalizzare il prodotto", racconta
Domenico Ghirardi, segretario della Cgil Valcamonica. "E' iniziata una girandola di
sfruttamento infernale, dove i padroncini si sono massacrati di lavoro e, a loro volta,
chiedevano ritmi impossibili alle lavoratrici per stare dietro alle richieste delle grandi
imprese che volevano sempre di più e prezzi sempre inferiori". Tutto bene, finché
la globalizzazione ha messo a nudo i limiti di un modello insostenibile. "Il
risultato - aggiunge Ghirardi - è che ora la Valcamonica è una sacca di disoccupazione
nella ricca Lombardia. E senza alternative, visto che lo sfruttamento degli anni scorsi ha
lasciato ben poco". Senza dimenticare le enormi difficoltà per sindacalizzare delle
micro imprese che vedevano il sindacato come la personificazione del male.
Quelli che sono rimasti fanno i salti mortali. "C'è chi è riuscito a distinguersi,
come nel caso della Cotonella. Il titolare è uno di noi che però si è creato un
marchio. Oppure si aggrappano a buste paga fasulle e lavoro nero", spiega Angelo
Fracassi, anche lui, ormai, un ex padroncino, dopo anni di lavoro tirato fino ai limiti.
Più o meno dice la stessa cosa Milena Mendotti, che da 26 anni è un'operaia tessile in
uno dei laboratori sopravissuti. Tira fuori le ultime buste paga e incalza: "Noi
siamo in regola, ma è impossibile chiedere dei soldi oltre il minimo sindacale.
Impossibile prendersi una pausa, anche se si rompe la macchina da cucire". Però ci
pensa un attimo e si chiede: "Come fai a ottenere qualcosa da chi è il tuo datore ma
lavora quanto e più di te, gomito a gomito?". Ma non basta mai. "Ora la nuova
frontiera per i grandi marchi tessili non è più il prodotto albanese o rumeno - avverte
Fracassi - . La nuova trovata è sfruttare laboratori in Italia dove sono segregati i
cinesi clandestini. Su questa strada, tutta prezzi e quantità, ci hanno stracciato".
Angelo ha preferito aprire un bar, altri hanno perfino accettato le durissime condizioni
di quelli che, in fondo, sono sempre stati i loro padroni. "Da qualche tempo -
aggiunge Angelo - si sono rifatte vive le grandi agenzie tessili e ci hanno detto: se
volete potete riaprire in Albania un altro laboratorio. Qualcuno ha anche accettato ma
pochi hanno resistito e sono tornati più in difficoltà di prima".
Perfino il tentativo di mettersi assieme e creare un marchio indipendente che potesse
stare in piedi da solo è fallito. Insomma, un consorzio, per cercare di opporsi alla
flessibilità ormai insostenibile, non ha trovato seguito. "Il guaio è che i
conterzisti non sono veri e propri imprenditori tessili. Sarebbe più esatto definirli ex
capi reparto cui è stata affidata la produzione che seguivano in fabbrica. Prendendosi
però anche il rischio pesante dell'impresa", fa notare Gianmaria Rizzi, presidente
della Confartigianato Unione di Brescia. Tanto che molti di loro hanno dovuto vendere la
casa e altri beni per pagare i debiti. Mentre l'individualismo, necessario per tenere i
ritmi di produzione così alti, ha portato alla totale diffidenza di ogni contoterzista
rispetto all'altro. I grandi marchi hanno diviso e comandato, sfruttando il tutti contro
tutti. "Proprio come in una fabbrica - commenta un amareggiato Rizzi -. Ma, quando un
pezzo che da questi laboratori italiani viene prodotto a mille lire, lo trovi in vendita a
15 mila, allora si capisce che è pazzesco". Del resto, spiega, c'è chi sopravvive
con una specie di sistema just in time portato alle estreme conseguenze. Il
laboratorio chiude, ma se il committente ha bisogno di qualche migliaio di mutandine in
fretta allora chiama i suoi ex. Ordina e, nel giro di poche ore, il laboratorio per magia
riapre, giusto nei giorni necessari per svolgere il lavoro richiesto tirando al massimo.
Poi tutti a casa, come se nulla fosse accaduto.
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