Corriere della sera 16 luglio 2001
A scuola di globalizzazione. Per combatterla L’Amazzonia si difende: i ragazzi imparano lo spagnolo ma c’è chi perde l’identità e si suicida

DAL NOSTRO INVIATO
IQUITOS (Amazzonia peruviana)- Non abbiamo mai raccontato questa Amazzonia che va a scuola per imparare a gestire la globalizzazione. Tetti di paglia del campus che si affaccia su un rigagnolo del Rio delle Amazzoni. Lo spirito non è il confronto, ma la riconquista. I programmi cancellano il buon selvaggio rovesciando la letteratura dei nostri viaggiatori propensi a trasformare gli indigeni in figure sfuocate. Vogliono salvare seimila chilometri di foresta. E i protagonisti del dramma diventano comparse curiose per l’arcaicità delle abitudini. Sopravvivono seduti su una cassaforte: oro, petrolio e pietre delle quali non sanno cosa fare. E rallentano il progresso. La scuola difende la cultura indigena mantenendola com’è, armandone la sopravvivenza. Antropologi e missionari possono aiutare le popolazioni dell’Amazzonia fino a un certo punto. Devono camminare da soli.
Diritto alla lingua, prima di tutto. Le diciassette famiglie linguistiche degli indios peruviani sono obbligate a specchiarsi nello spagnolo, idioma che avanza con le strade. La Scuola superiore di pedagogia apre l’insegnamento con gentilezza. Parola di partenza: Bienvenidos , benvenuti. Traduzione indigena non meccanica. Quelli rimasti nella foresta non capirebbero. Ogni maestro cerca fra le abitudini della comunità un significato che renda lampante il messaggio di accoglienza: «Che tu stia bene in casa mia». Oppure: «Se vieni in pace sei bene accolto». Qualche problema con i neologismi. Come spiegare una biblioteca a chi è sepolto nel verde e non ha mai sfogliato libri? Consultazioni lunghissime e, alla fine, la soluzione. «Chiamiamola Saggezza». Altro nodo: unificare una matematica complicatissima con regole diverse da un popolo all’altro. Il maestro sembra un ragazzo nella fantasia del carnevale: porta un fez sul quale si intrecciano gli stessi colori dell’abito da gran sacerdote. Punta la bacchetta sul tabellone: sta raccontando come la sua comunità sia abituata a far di conto. Se non è semplice per chi parla un’altra lingua indiana, a noi del computer sembra complicatissimo. Perché la numerazione si ferma al sei. Il sei è l’unità alla quale rapportare ogni calcolo. Dopo di lui una maestra quetchua (una delle due razze indios). Più tardi, a petto nudo, il maestro Pique-pique (uno dei popoli) spiega come riconoscere «i numeri sbagliati».
Il corso dura quattro mesi e, alla sera, le lingue si sciolgono nelle amicizie, corteggiamenti con chitarre e tamburi. Le ragazze sembrano quelle di qualsiasi campus del mondo. Ma appena tornano nel verde, devono dimenticare la scioltezza e rassegnarsi a essere quelle di prima. Eppure, ogni popolo ha capito che per sopravvivere alla civiltà deve imparare a maneggiarla. Saper usare le parole degli altri quando arrivano i madereiros che tagliano le piante preziose, o le macchine di chi cerca petrolio, oppure polizie che inseguono gli eredi di Sendero Luminoso. Minacciano con le armi. Fanno domande alle quali gli indios non possono rispondere: perché non capiscono. Ecco perché bisogna riattivare una pedagogia realista nella speranza di contrastare l’avanzata dei gadgets della civiltà. Popoli che devono potersi parlare per imparare assieme la «lingua esterna» e decifrarne i codici. Da Iquitos, i ragazzi tornano a casa con tre impegni: insegnare ciò che hanno studiato. Raccogliere le canzoni e raccontare il lavoro delle donne, riconoscere - scrivendo - nomi di animali e piante. L’anno dopo risbucano con pacchi di quaderni. Scelgono i momenti comuni a ogni popolo e lingua e li unificano nei computer, altra dimensione della quale non vogliono perdere l’incanto.
Gil Inoach, presidente della Comunità delle associazioni indigene interculturali di sviluppo, appartiene agli Aguaruna, popolo evoluto a nord del Perù. Gil non è comodo con giacca e cravatta. Firma ogni documento legale o commerciale nel nome delle sue 39 nazioni. Sarebbero 48, ma altre, più piccole e lontane, preferiscono la solitudine. Racconta sorridendo della grande vittoria strappata a un tribunale degli Stati Uniti. Da sempre le case farmaceutiche disperdono ricercatori nel grembo dell’Amazzonia. Tante domande a donne felici di rispondere: come curi il mal di testa, dolori mestruali, malattie della pelle? Uno di loro scopre le virtù dell’Ayahusca. Consuma il sacrilegio di impossessarsi della pianta sacra, «madre» di ogni indigeno, non importa il popolo al quale appartiene. L’infuso ricavato dalla corteccia dà coraggio, aiuta la caccia, toglie la malinconia. Insomma, un allucinogeno che con il brevetto di una multinazionale raggiunge ogni drugstore e lampeggia nei consigli delle riviste.
Ma gli indios hanno smesso di considerarsi comparse. I nove Paesi amazzonici (Brasile, Perù, Venezuela, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana francese, Suriname e Bolivia) fanno fronte comune. Strappano una sentenza storica negli Stati Uniti e il tribunale riconosce il loro diritto alla proprietà culturale e cancella il brevetto depositato dalla International Plan Medicine Corporation, stabilendo: d’ora in avanti «rubare le risorse è proibito».
A dare forma alla speranza di un riscatto è anche un progetto italiano diventato programma europeo. Cominciano nell’88, per l’Organizzazione non governativa Terranova, Massimo Amadio e Lucio De Miglio. Oggi è Luciano Carpo, da 17 anni in Perù, che coordina con il governo di Lima il programma pedagogico di Forte P, la scuola di Iquitos, e la pubblicazione di libri di testo in nove lingue indigene. Finora ne sono apparsi tre, scritti dal popolo che le userà. Le illustrazioni incantano i bambini. Devono imparare nomi di fiori, animali e piante che li circondano usando un vocabolario-ponte tra la babele indigena e lo spagnolo.
Non tutti sono d’accordo. Avanzano strade e bulldozer. L’ex presidente Alberto Fujimori ha moltiplicato licenze per trivellazioni petrolifere. La tracotanza armata dei nuovi conquistadores alla ricerca di oro e caucciù, spaventa e costringe alla fuga un popolo che si è rassegnato a diventare invisibile: i Mashcos-Piro. Hanno cominciato col respingere chi disboscava. Lance e frecce contro armi automatiche. Villaggi bruciati. Vittime senza nome nei rapporti distratti che arrivano alla Procura di Modulo Campo Verde nella Selva Centrale. Cresce la rabbia contro gli invasori, ma anche diffidenza che diventa odio verso chi ha tradito, imparando le parole degli «intrui» e pasticciandole con le loro. Per difendere la libertà del non cambiare, imboccano il sentiero di guerra.
Avvicinarli è difficile, ormai. Nomadi di pelle chiara, un metro e 90 di altezza, profilo forte, barba e capelli incolti. E non sono solo i Maschos-Piro. Altri nove popoli respingono il «travestimento». Vogliono restare ombre fra le piante e se l’invisibilità diventa impossibile, aggrediscono con punte avvelenate. Il braccio di ferro continuerà fino a quando i Mashcos-Piro non saranno scomparsi e la loro lingua perduta. Ne sono rimasti meno di 600.
Azzurra Carpo, figlia del professore impegnato nella scuola di Forte P, vive in Amazzonia dopo essersi laureata a Bologna con una tesi su «Costruzione del concetto di etnosviluppo nelle organizzazioni indigene amazzoniche». Racconta la storia di una donna-simbolo del contrasto fra globalizzazione e paradiso in pericolo. Miriam aveva 14 anni e si è uccisa. Apparteneva al popolo evoluto Aguaruna. Quando è tornata dalla scuola di Iquitos, la vita di prima le è piombata addosso. Ha rimesso la pampanilla, sottana con i colori dei simboli etnici. Avrebbe dovuto insegnare ai ragazzi del villaggio, ma la testa era confusa: impossibile dimenticare la libertà conosciuta a Iquitos dove girava in jeans e ballava la tecnocumbia.
Quando è sbarcata, dopo tre notti e quattro giorni di navigazione su una delle carrette che tagliano i fiumi, il padre Evaristo e il fratello maggiore l’hanno soffocata di domande. Un interrogatorio duro, sospettoso. Miriam ha capito che per sopravvivere doveva dimenticare Iquitos, cancellare risate e discorsi d’amore.
Un giorno è sparita. L’hanno ritrovata sul ciglio della strada che porta a Baragua. Accanto al corpo un barattolo di Racumin, veleno per topi. Ha sciolto la polvere in un bicchiere di Inca-Cola, che è la bibita nazionale: gialla e dolcissima. Attorno biglietti con la ripetizione di un’angoscia rivolta alla madre e alle sorelle: come essere donna fedele alla tradizione Aguaruna quando seghe elettriche e bulldozer dell’altro mondo stanno raggiungendo la foresta? Lei sa cosa sta arrivando.
Ogni anno 72 ragazze Aguaruna muoiono così. Gli Aguaruna sono 40 mila e la percentuale dei suicidi è dieci volte superiore alla media inglese. Si è ridotto così il popolo felice, libero dal nostro stress?
Maurizio Chierici