Corriere della sera 17 luglio 2001
Per alcuni i marchi di abiti, bibite e tecnologia hanno una personalità. Sempre più difficile trovare i nomi che siano adatti a tutti i Paesi

La seduzione del logo, nuova divinità che conquista i consumatori del pianeta

Le curve della bottiglia più celebre al mondo, quella della Coca-Cola, furono studiate perché fosse riconoscibile anche al buio. La piccola etichetta rossa applicata su ogni paio di Levi’s venne introdotta nel 1936 per aiutare i piazzisti a distinguere i loro jeans nella calca dei rodei. E quando nel 1999 l’American Express lanciò la nuova carta di credito Centurion, «la più esclusiva al mondo», decise di produrla in nero, colore che voleva evocare autorità, lusso e sofisticazione. E’ la misteriosa arte del marchio, del logo, la creazione, a volte casuale, di quei simboli e nomi che ogni giorno colpiscono a migliaia la nostra retina e che il quotidiano britannico Guardian ha definito «le nuove divinità». Perché ormai non devono solo far riconoscere un prodotto o un servizio, ma vendere un insieme di valori, una filosofia, dare un significato (oltre che un segno) alla vita di milioni di consumatori. Divinità globali: camminando per una qualsiasi città del mondo, sono i marchi che incontriamo a farci sentire sempre a casa. Le vetrine di McDonald’s, Starbucks o Blockbuster vengono prese d’assalto dai dimostranti antiglobalizzazione proprio perché sono le più popolari e riconoscibili. Per chiunque, ovunque. Una vera invasione degli spazi pubblici e delle vite, denuncia Naomi Klein in «No Logo»: i marchi hanno trasformato gli esseri umani «in bambole pubblicitarie ambulanti».
Nel 2000 il nome Coca-Cola veniva valutato attorno ai 72 miliardi di dollari (circa 160 mila miliardi di lire, la metà del valore di mercato di tutta la società), compensando abbondantemente gli sforzi legali del 1887, quando la compagnia sconfisse in tribunale e fece scomparire brand rivali come Mitch-O-Cola e Koca-Nola. Fu l’inizio della Coca-Colonizzazione del pianeta, come la bollarono i comunisti francesi negli anni Cinquanta, e il primo passo che avrebbe portato i marchi (e la loro costruzione) ad avere sempre più peso nei budget delle aziende. Quando la Ford acquistò la Jaguar, venne calcolato che le risorse fisiche rappresentavano solo il 16% del valore. Tutto il resto era immateriale, legato a quel nome e alla tradizione che richiamava.
Un evangelista del
brand come il pubblicitario Jean- Marie Dru ha sempre conferito caratteristiche quasi umane ai marchi, che non solo avrebbero una personalità, ma anche opinioni e atteggiamenti: «I computer Apple esprimono libertà riconquistata. I cosmetici Olay bellezza senza tempo. Le telecomunicazioni di At&T le promesse del futuro». «La Nike - spiega Scott Bedbury, che si è inventato per le scarpe sportive lo slogan "Just Do It" - è stata la prima azienda a considerare fino in fondo il marchio come il principio organizzativo di tutta la società».
Attributi che finiscono con il costare cari. Inventarsi un nuovo nome è sempre più difficile. Un po’ perché la corsa alla registrazione dei domini Internet ha reso i sostantivi disponibili una rarità . Un po’ perché con la globalizzazione trovare la parola giusta è ogni giorno più arduo. Dev’essere politicame nte corretta, non offendere nessuno. In tutto il mondo.

Davide Frattini