Corriere della sera 19 luglio 2001
Dalla Siberia con furore,
il fronte delle «antigiottine»
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di FABIO CAVALERA

GENOVA - Lena e Irina sono venute dalla Siberia. Sei giorni hanno impiegato: in treno da Omsk fino a Mosca. In pullman da Mosca a Kiev. Da Kiev alla Slovacchia. Dalla Slovacchia all’Austria. Poi, lunedì, l’Italia. Lena Starostina, trent’anni, alta, coi capelli castani raccolti dietro. Faccia stravolta dalla stanchezza, ma felice perché è la prima volta in vita sua che lascia il grande freddo. Là, ad Omsk, lavora come «operatrice culturale» ed è iscritta al sindacato. Irina Kolodinskaia, pure lei trentenne, pure lei sindacalista, pure lei alta ma bionda e con occhi azzurri. Il loro slogan anti G8 è di poche parole: non servono chissà quali proclami contro l’Impero per essere arrabbiati. «Il nostro stipendio è di quarantacinque dollari al mese». Più o meno centomila lire. Ad Omsk in Siberia scorre il petrolio. E con il petrolio ci sono dollari e rubli. «Nelle tasche di pochi oligarchi che poi li portano in Occidente».
Lena e Irina con altri compagni di ventura russi, bielorussi, kazaki, cinquanta in tutto, sono il fronte est di «Attac», l’Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie in Aiuto dei Cittadini.
Sono venute con pochi spiccioli. E quei pochi, l’equivalente di uno stipendio, l’hanno speso alle frontiere.
«Trenta, quaranta dollari per avere il via libera. Altrimenti saremmo dovute tornare indietro». Se non avessero «convinto» le guardie oggi sarebbero in Siberia. Dormono a due passi dalla scuola elementare Diaz in via Cesare Battisti dove si è insediato il Gsf, il Genova Social Forum che è il coordinamento della contestazione agli otto Grandi. L’appartamento è stato messo a disposizione della sezione italiana del gruppo. Lena e Irina si cucinano pranzo e cena e cucinano pure per gli amici russi, bielorussi, ucraini, kazaki. Allegre, curiose, sfinite nella città blindata. «Antigiottine» lo sono diventate dopo avere sentito il racconto di un loro amico che aveva partecipato alle manifestazioni di Praga. E in Siberia, a Omsk, hanno lanciato la sfida.
Lena e Irina non sanno che cosa sono le tute bianche. Non sanno che cosa sono i centri sociali. Non sanno chi sono i leader del cartello. Sono la truppa che scende in piazza. E che alle spalle ha una storia di antagonismo sociale, economico vero.
«Quarantacinque dollari al mese per vivere». Arrotondate con doppio e triplo impiego.
Il movimento che assedia i Presidenti non ha una sintesi ideologica e non ha una sintesi politica. Ha trovato un suo equilibrio attorno alla speranza di una diversa distribuzione delle ricchezze mondiali. E’ carico di idee. E’ carico di fantasie. E’ carico di ambiguità. E per questo può lasciare spazio a chi spinge per lo scontro, il «blocco nero» che parte dalla Germania, dalla Spagna, dalla Grecia. E che è sfuggente, sotterraneo. Che può scatenarsi in qualsiasi momento. Il movimento ha espressioni contraddittorie: ambientalisti, cattolici, comunisti, ultracomunisti, liberal, liberaldemocratici. Gli studenti, i lavoratori, i disoccupati, i pacifisti, gli arrabbiati, i pronti a tutto e i pronti a niente, gli schiodati, i punk, i cobas, mamme, papà, nonni, nonne. D’Europa, d’America, d’Africa.
Ingrid Steinitz, col vestito lungo a fiori, ha 67 anni, abita a Copenaghen, insegnava matematica al liceo. E’ mamma. E’ nonna. Ha cinque figli, quattro maschi e una femmina, dieci nipoti, è divorziata, è vissuta due anni nello Zimbabwe. C’era a Praga. C’era a Goteborg. Due tappe dell’
antiglobal . «Sono partita in pullman, ho viaggiato un paio di giorni e mi sto divertendo tantissimo. Genova è affascinante». Qui si è sistemata sotto i tendoni del campo sportivo Sciorba dove sono arrivati i poliziotti per un controllo. Le hanno chiesto: «Passaporto signora».
Ha risposto: «Ve lo consegno ma voi mi date una ricevuta che alla tal ora e in tal posto mi avete chiesto il passaporto». «Prego?» «Nel mio Paese questa è la prassi». Hanno soprasseduto. Ingrid è sola. «I miei figli sanno che sono venuta. Un paio mi approvano. Gli altri sono più conservatori». È anti G8 perché quando «mi trasferii in Zimbabwe vidi che cosa è la miseria». È anti G8 perché chiede la cancellazione del debito dei Paesi poveri.
Convergono fra le schiere internazionaliste e internazionali dei contestatori motivazioni che escono da storie personali vissute in zone del pianeta dove esplodono guerre. O dove si muore per fame. Noa Adam è una bella ragazza di diciannove anni, israeliana di Haifa.
«Trapezista». E’ arrivata la settimana scorsa con il fidanzato. Entrambi attivisti di un gruppo che promuove «l’affinità israelo-palestinese». Sono venuti in undici. Dice che è anti G8 per protestare contro gli Stati Uniti che finanziano l’armamento di Israele e «la politica di aggressione». «Ci lavano il cervello ripetendoci di stare attenti ad Arafat, ad Hamas. Nessuno ci dice di stare attenti agli estremisti d’Israele».
Se il nemico di Noa è la guerra, il nemico di Julia Di Giovanni, 22 anni, studentessa di San Paolo è «il potere dei mercati». Julia ha preso l’aereo, è sbarcata a Milano, è salita sul treno prima che chiudessero le stazioni di Genova. Si è portata 680 dollari. Ma spera di risparmiare tantissimo per dare il suo contributo all’organizzazione. Prenderà la laurea in scienze sociali. «Non credo che ci sia bisogno di visualizzare un nemico con un nome». La sua battaglia è in nome «dell’anticapitalismo», in nome dell’impegno a distruggere l’inferno delle favelas .
Il popolo che assedia i Presidenti è arrivato. Dalla Siberia, da Israele. Dal Brasile. Dalla Danimarca. Da Roma. Francesco, 17 anni.
«Ciao mamma. Tutto bene. Non ti preoccupare». E c’è chi già pensa al dopo Genova. Che fare? Attac Italia raccoglierà firme da settembre per una legge di iniziativa popolare a favore della Tobin tax, la tassa sulle transazioni di capitale. Per aiutare il Terzo e il Quarto Mondo.
fcavalera@corriere.it
Fabio Cavalera