Manifesto 18 luglio 2001

Come uscire dallo stallo dell'Aja
Il protocollo di Kyoto è come un formaggio svizzero: non si sa se siano più grossi i buchi o il formaggio. Una proposta per l'Europa
WOLFGANG SACHS


Di rado l'Unione europea ha intrapreso tanti sforzi per isolare diplomaticamente gli Usa. Il tentativo più recente ha visto una delegazione, guidata dal commissario europeo all'ambiente Wallström e dal ministro dell'ambiente belga (il cui paese presiede in questo semestre l'Europa) tentare di convincere l'Australia e il Giappone a ratificare il protocollo di Kyoto anche in assenza degli Usa. Dal 16 al 27 luglio Bonn ospita il seguito dei lavori della fallita conferenza sul clima dell'Aja. In questa occasione, l'Europa spera ancora di salvare Kyoto. Ma nessuno sa precisamente cosa potrà essere davvero salvato. Perché il Protocollo è come un formaggio svizzero: nessuno può dire se sono più grossi i buchi o il formaggio. Certo, nel 1997 le nazioni industrializzate si sono obbligate a ridurre almeno del 5% rispetto al '90 le proprie emissioni inquinanti. Ma allo stesso tempo questa concertazione è stata "bucata" da talmente tante vie d'uscita che l'obbligo non è più distinguibile dalle scappatoie. Il Protocollo di Kyoto è un'opera incompleta perché così è stato voluto.
Fin dall'inizio gli Stati uniti, appoggiati dall'Australia e dal Canada, hanno meditato su come rimare "amici del clima" senza mettere fine all'abbondanza di energia nei loro paesi. Gli Stati uniti sono i più grossi utilizzatori del pianeta e i più grossi produttori di energia fossile. In questa dipendenza sta il motivo per cui la delegazione negoziale degli Usa aveva lo scopo di fare politica sul clima, senza però ridurre le emissioni di gas serra nel proprio paese. Per quasi dieci anni la diplomazia statunitense è rimasta fedele a Rio: non alla convenzione sul clima, ma alla dichiarazione di Bush senior: l'american way of life non è trattabile.

Le scappatoie di Kyoto

La prima scappatoia era il fatto che oltre all'anidride carbonica (Co2) anche molti altri gas sono responsabili per il riscaldamento dell'atmosfera. Per esempio il metano e il gas esilarante, che non vengono fuori dalle ciminiere, dai camini e tubi di scarico, ma che si trovano nell'agricutura e nell'allevamento di bestiame. Il protocollo di Kyoto permette di diminuire l'emissione di altri gas al posto di Co2. In questo modo il coltivatore di riso in Thailandia c'entra quanto l'allevatore di maiali in Danimarca, anche se le loro emissioni di metano sono poco responsabili del riscaldamento del clima. Storicamente il cambiamento del clima non è provocato dalle emissioni per esigenze alimentari, dato che il salto qualitativo è nella combustione di riserve fossili: come si possono mettere sullo stesso piano l'emissione di metano dalle risiere thailandesi e gli scarichi di biossido di carbonio dai tubi di scarico dei Landrover americani?
Una seconda scappatoia si apre grazie alle caratteristiche del biossido di carbonio, che durante la sua circolazione nella sfera biologica aiuta lo sviluppo della vegetazione. Niente più evidente per i diplomatici che vogliono proteggere la loro economia, che comprendere nelle loro trattative accanto alle fonti di Co2 anche i modi per ridurre quote di Co2. In due parole: più foresta invece di meno Co2. Così chi aumenta la capacità di immagazzinamento della terra diventa un ecologista tanto quanto chi diminuisce le emissioni.
Nell'ultima notte della maratona di trattative di Kyoto i delegati spossati hanno votato che il rimboschimento sarebbe stato inserito come voce positiva nel Co2-budget dei paesi. Ma rimanevano questioni del tipo: cos'è una foresta, quanto Co2 c'è veramente immagazzinato, per quanto tempo e sotto quali condizioni, cosa significa la coltivazione di piante, e quanto se ne potrebbe mettere in conto. Si giocava con numeri e ipotesi tanto arbitrari che la Ue ha tirato il freno a L'Aja e ha rifiutato l'accettazione. Con questo sembrava finito il piano degli Stati uniti (supportato da Canada e Giappone) di rendere una parte della biosfera una discarica per assorbire Co2, e in questo modo prolungare ancora la vita di un modello d'industria fossile.
Una terza classe di scappatoie nasceva dalla strategia di diminuire i gas serra non solo nel proprio paese ma anche al di là delle proprie frontiere nell'Est e Sud del mondo e poi farsi accreditare quest'investimento nel proprio bilancio. "Flessibilità geografica" è la parola d'ordine, che unisce strumenti come commercio di emissioni, joint implementation, clean development mechanism. Se si deve investire capitale, questa la convinzione degli Stati uniti, meglio farlo là dove costa poco - nell'Est ex-comunista e nell'emisfero meridionale. Però un tale scambio avviene a scapito della protezione del clima nel proprio paese: le nazioni industrializzate sarebbero liberate dalla pressione per la ristrutturazione delle loro economie verso un modello post-fossile, senza il quale non si può parlare di sviluppo sostenibile. Quando gli Stati uniti hanno rifiutato all'Aja una limitazione quantificata di flessibilità geografica, la Ue si è accorta che si era passato il Rubicone. Così gli europei hanno lasciato fallire L'Aja per salvare l'integrità del protocollo di Kyoto.

Sono stati più che altro questi "meccanismi di flessibilità" che hanno portato le trattative sul clima nella trappola della complessità. Come in altri tempi nelle trattative sul disarmo: nessuna traccia di un risultato chiaro. Dando un'occhiata più profonda si capisce che anche le quote quantificate di riduzione dei gas sono grandezze fittizie, sotterrate da trattative aggiunte, svalutate da strategie di aggiramento, e insomma molto complicate per metodi di calcolo poco trasparenti. Sotto la parete di nebbia delle trattative il riarmo continuava. Se tutti i meccanismi di flessibilità venissero sfruttati fino in fondo, le emissioni negli Stati uniti, Canada e Australia aumenterebbero fino al 20%, senza trasgredire di una parola il protocollo di Kyoto. Se si considera poi che tutto il Sud del mondo non è ancora obbligato a nessuna limitazione, ecco il paradosso, che globalmente le emissioni di anidride carbonica potrebbero aumentare ancora - nonostante Kyoto.

Colombo e il clima

Il presidente Bush insiste su una partecipazione dei paesi in via di sviluppo alle misure di protezione del clima. Ha ragione considerando la forte crescita delle emissioni nei paesi emergenti, almeno in linea di principio: c'è il rischio che prima o poi le emissioni del Sud annientino le riduzioni del Nord. La protezione del clima mondiale dipende anche dalla cooperazione del Sud. Ma qui arriviamo, nella politica del clima, a un'ingiustizia iniziata con Colombo: il Sud vede un'altra volta negato il suo diritto all'eguaglianza, si rifiuta e chiede un trattimento giusto. Al di là di Kyoto la disparità fra Nord e Sud sarà il vero ostacolo delle trattative sul clima.
Chi può prendere quale parte dello spazio ambientale consentito alle emissioni? E' questa la domanda chiave, che determinerà le trattative al di là di Kyoto. Alla fine un accordo corretto e a lungo termine è partire dal principio che tutti hanno lo stesso diritto di servirsi dell'atmosfera. Perché l'atmosfera è un bene comune, su cui nessuno può rivendicare diritti di proprietà, sebbene ciascuno ne partecipi. Con l'obiettivo di eguali diritti si può cominciare a trovare una quota per ogni paese industriale che diminuisca le emissioni attraverso decenni finché non abbiano raggiunto un livello globalmente sopportabile. Allo stesso tempo i paesi in via di sviluppo si dovrebbero orientare su un sentiero che permetta sì l'aumento di emissioni, ma solo fino al livello globalmente sopportabile.
Certo, non c'è ragione per il Sud di rimanere spettatore laterale e aspettare mentre il Nord si accorda. Perché diluvi e aridità, cambiamenti della vegetazione e del ciclo dell'acqua, la malaria e la febbre di dengue sono più estesi nel Sud del mondo e colpiscono lì i più fragili, quel terzo della popolazione globale che vive direttamente dalla natura. Pescatori in Kerala, allevatori di bestiame in Tanzania, coltivatori di riso in Bangladesh sono minacciati nel loro sostentamento, spesso nella loro sopravivenza. Ancora una volta siamo in presenza di una distruzione coloniale, questa volta telecomandata dalla chimica dell'atmosfera. In quest'ottica i negoziati sui diritti di emissioni sembrano un piccolo litigio all'interno della classe media globale per avere più diritti nell'ambito di un'economia di preda. Fissate sulla battaglia del potere economico e politico le élite del Nord e del Sud sembrano pronte ad abbandonare al loro destino parecchie economie di sovvravivenza nella parte povera del mondo. Perciò nel futuro i paesi del Sud devono chiedere di più nelle trattative sul clima, se vogliono tutelare il diritto alla vita dei propri cittadini.

Quanto vale l'Europa?

Tutti guardano l'Europa. Ma l'Europa non può agire da sola. Ha bisogno della ratifica di Russia e Giappone per raggiungere per il protocollo un quorum, che sia vincolante nel diritto delle genti. Se la ratifica può essere raggiunta solo con compromessi pigri, sarebbe meglio lasciar stare il progetto di un accordo globale e universalmente vincolante sul clima. L'Europa potrebbe invece concentrarsi su un'alleanza con il Sud sul clima. Perché non introdurre nella politica del clima, analogemente al processo dell'unificazione europea, diverse velocità? Così come la dinamica europea è stata messa in moto negli anni '50 dal gruppo centrale dei Sei, anche adesso un'alleanza di paesi selezionati portebbe diventare il motore di un regime ecologico e giusto del clima nel futuro. E così come i Sei gettavano un ponte sul fossato tra vincitori e perdenti della guerra, anche adesso una tale alleanza potrebbe gettare una ponte sula crepa fra il Nord e il Sud.
Un tale gruppo di pionieri potrebbe costruire un'architettura della solidarietà, che si fondi su tre elementi: 1) l'impegno a ridurre le emissioni a un livello di persistenza; 2) perseguire di una convergenza a lungo termine di parifocazione delle emissioni pro-capite; 3) accompagnare questo accordo con una collaborazione stretta, che includa risarcimenti finanziari. Si potrebbe iniziare una sorta di "Commonwealth ecologico", che operi come battistrada sulla via dello sviluppo sostenibile e che sia sempre aperto a nuovi ingressi. Una tale iniziativa ha bisogno di una leadership decisa. Ma non potrebbe darsi che la vocazione dell'Europa nel ventunesimo secolo non sia né nell'economia né nel militare, ma in un'ecologia cosmopolita?

Wolfgang Sachs, scienziato, dirige le ricerche del Wuppertal Institut. E' autore del "Dizionario dello sviluppo" (ed. Gruppo Abele) e di "Futuro sostenibile" (Emi)
(Traduzione di Wibke Bergemann)