La Regione Ticino 17 luglio 2001
'Un solo mondo, ma tanti colori'
|
Il processo di
globalizzazione, secondo Christian Marazzi, può essere anestetizzato dalle diversità
Il popolo di Seattle? Dopo Genova, dopo la manifestazione anti-G8, deve darsi un 'corpo'
locale
|
|
Globalizzazione. Parola magica enfatizzata e nel contempo sbeffeggiata. La «madre di
tutte le miserie», secondo il popolo di Seattle che si appresta a scendere in piazza a
Genova, i prossimi 20, 21 e 22 luglio, per bloccare il vertice dei G8, ovvero il summit
periodico degli otto paesi più potenti del mondo. Tutti uniti sotto il cappello della
globalizzazione. Da una parte chi ritiene che si debba comunque gestirla ed indirizzarla,
dall'altra chi condanna la politica di sempre: gli interessi dei pochi contro le esigenze
dei molti. Ma c'è una bussola per orientarsi nel complesso mondo globalizzato? L'economia
ha davvero tolto ogni spazio alla politica? Quali speranze per chi si batte contro le non
poche differenze ancora presenti nel globo? Lo abbiamo chiesto all'economista ticinese
Christian Marazzi. «Nel rapporto fra il mondo economico e politico, si è assistito negli
ultimi vent'anni ad una progressiva denazionalizzazione dello spazio economico, ma nello
stesso tempo ad una politicizzazione dei grossi problemi. Uno per tutti, il movimento
delle persone». Economia senza confini, dunque, così come per i temi che affliggono il
mondo. La denazionalizzazione dell'economia ed i grandi flussi migratori generano
situazioni nuove. Con quali problemi? Ci troviamo di fronte ad una situazione inedita. Gli
stati nazionali sono dei soggetti politici fra altri; non detengono più il primato per le
strategie interne ed esterne. Si ritrovano attori all'interno di un ventaglio sempre più
ampio. Questa situazione rimette in discussione i rapporti di forza... Certo, perché il
Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del
commercio (Wto) sono rappresentativi dei paesi membri. Ma il problema è un altro. C'è
una contraddizione fra quello che è il livello della rappresentanza e il modello di
crescita veicolato da questi organismi. Non c'è dubbio che il Fmi, ma anche la Wto,
basano le loro strategie su un modello economico del tutto occidentale. Basti ricordare, a
questo proposito, che gli Stati Uniti hanno diritto di veto su qualsiasi proposta che non
aggrada e nel contempo hanno un peso fondamentale all'interno della stessa Onu che
originariamente voleva essere un organismo rappresentativo ma non sovrano. In realtà
l'Onu si è piegata a scelte unilaterali, giuste o sbagliate che siano. Questa, a ben
vedere, è la crisi della rappresentanza. A proposito di rappresentanza c'è chi fa notare
che i partecipanti al vertice dei G8 sono stati eletti democraticamente almeno a livello
nazionale, mentre il popolo di Seattle rappresenta solo se stesso... Non sono d'accordo
proprio per quanto affermato sino a questo momento. In realtà è in crisi il meccanismo
di rappresentanza tout court. A tutti i livelli. Ed è proprio questo il problema centrale
del dopo Genova. I movimenti e le associazioni non governative devono trovare delle
modalità non per forza legate all'evento, agli incontri appunto del Fmi, della Banca
mondiale, dello stesso G8. Ma che cosa è cambiato rispetto a vent'anni fa quando il mondo
occidentale era diviso in due blocchi contrapposti? Anche in quel periodo i paesi più
ricchi determinavano il futuro dei paesi più deboli. Secondo me è mutato il gioco degli
equilibri. Dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo assistito ad una accelerazione di
processi come la liberalizzazione dei mercati, ad esempio nei paesi del Sud-Est asiatico.
Fino a quel momento quei paesi erano assai refrattari alla libera circolazione dei
capitali. Caduto il muro di Berlino si è generata una 'via libera' allo sviluppo
sovranazionale del capitale, oltre gli stati-nazione. I paesi in via di sviluppo,
comunque, dimostrano in qualche modo di accettare la globalizzazione dei mercati perché
viene considerata un'opportunità, seppur ad un prezzo salatissimo. Un passaggio
inevitabile per raggiungere il capitalismo moderno... Quella delle fasi dello sviluppo
capitalistico è una vecchia storia che si trascina da 200 anni. Dopo la prima fase
dell'industrializzazione, pagata duramente, ci sarà il benessere. In realtà non è
questa la logica del capitale globale e non lo è stata nemmeno in passato. In realtà il
capitale si sviluppa producendo sottosviluppo. Se prendiamo ad esempio la Cina, ma anche
l'Indonesia o le Filippine, vi è in corso senz'altro un processo di crescita industriale
ma a tutto vantaggio delle imprese occidentali. Penso alla Nike. Non a caso queste aziende
vengono definite 'rondini'. Perché come le rondini se ne vanno non appena lo sviluppo
locale inizia a creare le istanze sociali e di democrazia. La necessità di attraversare
queste fasi per un domani migliore è una grossa favola. Non è questa la storia
dell'economia mondiale dalla prima rivoluzione industriale in poi. Per tornare alla
protesta dei movimenti antiglobalizzazione, quali sono le speranze e quali le possibilità
concrete per incidere sulle grosse scelte? In primo luogo direi che sul piano
dell'immagine e dell'immaginario, il popolo di Seattle ha già vinto una battaglia
importantissima, nel senso che ha portato una delegittimazione del modello liberista
pensato su scala mondiale. Questa, per me, è una vittoria assolutamente indubbia. Il
problema che ci si pone ora, è quello di un salto di qualità delle strutture «meso»
capaci di andare oltre i momenti di aggregazione imposti dal calendario dei potenti.
Quando dico «meso» intendo questo: le forze che si muovono all'unisono su scala
internazionale, poi litigano a livello locale e non vanno d'accordo perché la
globalizzazione è un obiettivo unico. Per «meso», dunque, intendo un livello a metà
fra il locale e il globale. Ma che cosa unisce, globalizzazione a parte, personaggi e
movimenti così diversi fra loro? Credo che li unisca la diversità. Ogni movimento si
differenzia perché porta avanti istanze e visioni del mondo molteplici. Ma la diversità
è l'unica chance possibile per modificare la globalizzazione. Senza le differenze, la
globalizzazione diventa una forza di azzeramento e violenza contro i corpi delle
popolazioni. é chiaro però che s'impone un nuovo modo di pensare. Bisogna concepire il
molteplice. Il popolo di Seattle insegna soprattutto questo. Ed è questa la vera e nuova
rivoluzione in corso. Un processo positivo che può incidere sulla globalizzazione. |
|