Manifesto 12 luglio 2001 In
transito verso Occidente
Ogni generazione politica elabora la propria "metafisica della gioventù".
E il "popolo di Seattle" cita il Sessantotto, ma ha alle sue spalle la critica
alla politica avanzata dal pensiero della differenza e di fronte a sé l'impotenza dei
governi a misurarsi con le sue richieste
IDA DOMINIJANNI
" Diceva Tocqueville che l'uguaglianza, una volta messa al mondo,
non può più uscirne. Lo stesso potremmo dire della liberazione: una volta venuta al
mondo, la dinamica della liberazione periodicamente non può che tornare a galla".
Giacomo Marramao - filosofo della politica, docente all'Università di Roma Tre - sceglie
questa porta per entrare nel "movimento dei movimenti" e leggerlo dalla
prospettiva biografica e politica di un intellettuale che si è formato nel Sessantotto e
ha frequentato, fra anni Settanta e anni Novanta, le vie complesse e intrecciate della
crisi e della critica della politica. Da questa prospettiva la genealogia della
contestazione si vede meglio, per differenza più che per somiglianza con i precedenti
degli anni Sessanta-Settanta; si smontano facilmente gli stereotipi che sui massmedia già
spoliticizzano il "popolo di Genova" dividendolo fra "i cattivi" che
giocano allo scontro armato e "i buoni" nella parte della società civile
disarmata ma impolitica o antipolitica; si riconoscono i fili carsici che legano genesi,
idee e ingenuità del movimento a una galassia riconoscibile di idee e pratiche politiche
dell'ultimo ventennio, nonché a diverse interpretazioni della globalizzazione. Sulla
quale Marramao sta per licenziare un volume presso Bollati Boringhieri, titolo Passaggio
a Occidente. Tecnica e valori nell'età globale: in questa conversazione ne anticipa i
temi principali, che porterà oggi stesso a Genova, in un convegno sulla globalizzazione
organizzato come antipasto del vertice e del controvertice.
Cominciamo dagli stereotipi. I media continuano a parlare di "movimento
antiglobalizzazione". Eppure Naomi Klein, l'autrice di "NoLogo" nel suo
recente - e mediaticamente fortunato - viaggio in Italia ha spiegato da tutte le tv che il
"movimento dei movimenti", come preferisce chiamarlo lei, non è
"contro" la globalizzazione, ma "per" democratizzarne il governo e gli
esiti.
Ha ragione Naomi Klein. Il "movimento dei movimenti" non si oppone alla
globalizzazione, al contrario: la gioca come chance contro il suo stesso
presupposto, l'imperativo categorico del capitale globale che la inchioda in una gabbia
d'acciaio. E quindi pratica una sorta di "globalizzazione dal basso" - per usare
un'espressione di Toni Negri, Alberto Magnaghi e altri che pure non mi convince del tutto,
perché non mi piace ragionare in termini di opposizione alto/basso: apre un percorso di
oggettiva globalizzazione, al di là delle forme soggettive di contestazione del marchio
capitalistico della globalizzazione attuale. La stessa rapidità con cui il movimento di
Seattle ha scavalcato le barriere nazionali ne è la dimostrazione.
C'è chi parla di un "nuovo Sessantotto". Chi, sulla scia di
"Empire" di Toni Negri e Michael Hardt, rintraccia gli antenati delle
"moltitudini" contestatrici di oggi in una storia lunga di ribellioni che parte
dal feudalesimo. E chi viceversa pensa che il movimento l'abbia portato all'improvviso la
cicogna. Proviamo anche noi a mettere qualche data?
Il "movimento dei movimenti" segna la fine del "grande freddo" che
va dalla fine degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta, il ventennio della
stagione cosiddetta "post-ideologica" che ha interpretato il tramonto delle
ideologie come necessario e ineluttabile adattamento alla politica delle procedure
liberali, dei vincoli determinati, dell'economia di mercato senza frontiere. Nel movimento
c'è una ripresa dei grandi temi dell'universalismo e della liberazione che avevano
segnato gli anni Sessanta, un decennio di soggettività cosmopolite e di grande ricambio
generazionale in cui non a caso sono stati inventati i grandi linguaggi innovativi che
tuttora "ritmano" - alla lettera, a cominciare dalla musica - molti
comportamenti sociali dell'ultima generazione e i rapporti fra le generazioni. Che da
allora sono rapporti di messa in discussione, anche molto dura, dei padri da parte dei
figli: da allora, ogni generazione ha diritto a elaborare la propria "metafisica
della gioventù" in polemica con la generazione precedente. Perciò il rapporto di
questo movimento col Sessantotto va visto sotto un duplice aspetto di citazione e di
rottura.
Ad esempio, il cosmopolitismo del "popolo di Seattle" ha caratteristiche
diverse da quello del Sessantotto?
Sì, perché è un cosmopolitismo non elitario, fatto di pratiche nuove che rompono con
le forme politiche moderne dell'azione collettiva ancora ben presenti nel Sessantotto. La
struttura del "movimento dei movimenti" è a rete, non c'è un'élite ma solo
dei portavoce; nel Sessantotto le élite invece c'erano, nel solco di una continuità con
la tradizione dell'avanguardia rivoluzionaria che oggi invece appare del tutto superata. E
poi, sono diversi i linguaggi: il Sessantotto parlava un linguaggio materialista
"spesso", il movimento di oggi parla la lingua "sottile" dei diritti,
della tecnologia, della comunicazione mediale.
I diritti, appunto. Prima dicevi: cosmopolitismo e universalismo. Ma il ventennio che
tu chiami del "grande freddo" è stato anche un ventennio di critica
dell'universalismo dei diritti, sulla base di fondate ragioni, a cominciare dalla cultura
della differenza sessuale. Come si ricostruisce, dopo questa stagione di critiche,
l'universalismo, e quale universalismo? Non si fida troppo della retorica dei diritti,
l'universalismo del "movimento dei movimenti"?
Infatti a me non piace lo slogan del movimento "globalizzare i diritti": c'è
da attraversare un deserto di ghiaccio per criticare la retorica dei "diritti
umani", di cui le grandi agenzie della globalizzazione fanno largo uso. Quanto alla
ricostruzione dell'universalismo, bisogna intendersi: dipende dall'analisi della
globalizzazione che la sottende. E se partiamo da un'analisi corretta della
globalizzazione, alla fine ritroviamo l'universalismo, ma rideclinato da cima a fondo.
Allora cominciamo dall'inizio: che cos'è la globalizzazione? Domanda tutt'altro che
scontata, malgrado l'uso inflazionato del termine nel lessico politico quotidiano.
Io penso che la globalizzazione non sia omologazione e nemmeno scontro delle civiltà.
La globalizzazione è piuttosto un transito, un passaggio, di tutte le aree del pianeta
attraverso gli stili occidentali. Ed è un processo attraverso il quale si ridefiniscono
tutti i nodi della modernità illuministica, comprese le coppie oppositive che ne hanno
caratterizzato la costellazione concettuale. La prima a saltare è la coppia
oriente-occidente, una costruzione della cultura occidentale che risale a Erodoto e che da
sempre domina i processi di autoidentificazione dei popoli orientali, fino al paradosso
dell'elaborazione di un complesso di "valori asiatici" come reazione
all'egemonia occidentale. Ma nella globalizzazione sia l'oriente sia l'occidente si
mostrano plurali. Entrambi si accorgono di essere l'uno dentro l'altro. Entrambi scoprono
che i propri rispettivi miti - il destino nichilistico dell'occidente, il destino
spirituale dell'oriente - sono appunto solo dei miti: la spiritualità di cui sarebbe
depositario l'oriente, ad esempio, a ben guardare porta inscritti nel suo Dna i
presupposti del massimo di ateismo e materialismo. Ed entrambi sono attraversati sia da
spinte universaliste sia da spinte anti-universaliste. Ricostruire un universalismo
cosmopolita nella globalizzazione significa dunque, per cominciare, mettere in valore le
tradizioni universaliste e cosmopolite orientali e occidentali, contro
l'anticosmopolitismo che le percorre entrambe e che nell'occidente di oggi prende le ben
note sembianze del localismo, dell'etnocentrismo, del comunitarismo.
Fine della coppia est-ovest. Però nella globalizzazione resta attiva la coppia
nord-sud, e si divarica ulteriormente, o no?
Anche il contrasto nord-sud, a ben guardare, non è un contrasto fra due blocchi
compatti, ha una configurazione a macchia di leopardo. Se per "sud" intendiamo
disuguaglianza e povertà, il sud non sta solo a Calcutta o in Chiapas, lo troviamo nelle
periferie di Londra, di New York, di Los Angeles.
Ma se nella globalizzazione emerge questa pluralità, questa differenziazione interna
alle culture del pianeta, perché viceversa essa viene intesa generalmente come
omologazione, trionfo a senso unico dello "stile" occidentale?
Infatti, personalmente arrivo a conclusioni opposte a quelle che diagnosticano il
trionfo del "pensiero unico" occidentale. Perché nella globalizzazione
l'occidentalizzazione va di pari passo con la de-occidentalizzazione: quando l'occidente
diventa mondo, i suoi "pilastri fondamentali" si rompono. "Passaggio a
occidente" significa che dobbiamo superare l'idea della globalizzazione come processo
di omologazione, o come clash alla Huntington. E pensarla invece come l'effetto di
due tendenze in tensione fra loro: da un lato il "glocalismo", dove il locale
non è in contrasto con il globale ma ne è la necessaria interfaccia; dall'altro lato le
nuove spinte all'universalismo. Ma a un universalismo - questo è il punto, se vogliamo
ridefinire un "uso alternativo della globalizzazione" - accostato non dal
vertice ottico dell'identità, bensì dal vertice ottico della differenza; non dal bisogno
di legame con il simile, bensì dall'esperienza della relazione con il diverso.
Che ne è della configurazione del potere, nella globalizzazione? "Sfondare la
linea rossa": il "movimento dei movimenti" sembra fermo ancora a una
rappresentazione tradizionale della cittadella del potere...
C'è un dominio del tecnopotere, o meglio del biopotere in un involucro tecnopolitico,
sulle nostre esistenze. Ma questo potere non riesce a diventare un sistema di oppressione
globale, e deve viceversa lasciarsi permeare dalle forme di vita. Oggi siamo messi di
fronte non all'onnipotenza, bensì all'impotenza del potere. Guarda i fatti: la potenza
degli Stati uniti è costretta a una tregua con il popolo di Seattle per reggere. Lo
stesso dicasi per il governo italiano, senza dubbio il più di destra della storia della
Repubblica, ma costretto a parlamentare con il portavoce delle tute bianche ed
evidentemente attentissimo a non creare linee di scontro traumatiche col movimento di
Genova. Del resto, non è un caso che oggi si parli più di global governance che
di global government, più di gestione che di vero e proprio governo della
globalizzazione.
Il processo di globalizzazione è andato avanti di pari passo con la crisi, alcuni
sostengono la fine, delle forme della politica moderna. Che è stato però anche l'inizio
- penso al femminismo - di forme nuove della politica e di una nuova antropologia
politica. Che destino vedi, per la politica, nel mondo globale?
C'è chi non ne vede alcuno, e ritiene che l'epoca del trionfo della tecnica sia anche
ineluttabilmente l'epoca del trionfo dell'antipolitica. Io invece penso che le
trasformazioni in corso ci impongano un salto del pensiero politico all'altezza dei tempi,
il passaggio da una fase tutta decostruttiva delle categorie della politica a una visone
più costruttiva, ma che sappia incorporare e mettere a frutto la critica degli ultimi
decenni. Torniamo al punto: dobbiamo reinventare una politica della libertà e
dell'uguaglianza dentro quello che io chiamo "l'universalismo della differenza".
Dentro un universalismo basato cioè non più sull'identità - come nella tradizione
kantiana o in quella neokantiana della "società giusta" alla Rawls -, ma
nemmeno sulle differenze, al plurale - come in una certa cultura nordamericana del
multiculturalismo, che risolve tutto moltiplicando le identità e garantendole con la
rappresentanza per quote, in una logica anti-universalistica dei ghetti continui. Dobbiamo
praticare l'ossimoro di un universalismo della differenza, o se preferisci di un
anti-antiuniversalismo della differenza. Questo è il presupposto per costruire una sfera
pubblica globale, nozione che preferisco di gran lunga a quella, intrisa di polemica
antipolitica, di "società civile globale". Una sfera pubblica post-statuale, trait
d'union, alla Arendt, fra le sfere di vita e di relazionalità e la loro traduzione
istituzionale.
Ma questo non è esattamente un progetto di democratizzazione della globalizzazione:
significa piuttosto riscrivere da capo la democrazia, o forse fuoriuscirne.
Viviamo ormai, dobbiamo dircelo con chiarezza, in un'epoca post-democratica. La
democrazia per come si è sviluppata realmente, da Atene a Washington, non produce più un
"luogo comune" in grado di raccogliere l'esperienza dei soggetti. Del resto, la
democrazia non è che l'altra faccia del Leviatano, la sua faccia democratica appunto.
Dopo il Leviatano, bisogna tornare ai due pilastri del patto sociale, individuo e
comunità, e ripensarli entrambi alla radice.
C'è un pensiero anti-comunitarista della comunità, quello della comunità dello
sradicamento di Nancy e Esposito...
Sì, non più la gemeinshaft dei valori comuni ma la comunità del
nulla-in-comune, non più la comunità delle radici ma la comunità dello sradicamento.
Che però è un rovesciamento speculare del concetto tradizionale. Il fatto è che non si
reinventa la comunità se non si ridefinisce contemporaneamente l'individuo, oltre lo
statuto dell'individuo moderno.
Perciò prima parlavo di una nuova antropologia politica. Il Leviatano era costruito a
misura dell'individuo moderno, la politica del dopo-Leviatano, come la chiami tu, sulla
base di quale individuo - uomo e donna - deve ripensarsi?
Sulla base di un individuo multiplo, plurale nelle sue reti di relazioni, composito
nella sua stessa costituzione identitaria, che è fatta di nodi di esperienza ed è
effetto di pratiche svariate. Dobbiamo abituarci a concepire quello che un tempo
chiamavamo il soggetto come un intreccio di nodi esperienziali, come un sistema nodale
della personalità, carico di motivazioni ma aperto all'imprevisto della relazione. Del
resto, oggi siamo in grado di leggere la storia occidentale come storia di un soggetto che
anche quando si rappresentava come fondamento, non era altro che un mosaico di pratiche e
di comandamenti etici.
Stai dicendo che per leggerci al presente ci serve tornare a Foucault?
Sì, ma non solo. Ci serve tenere presente il portato della psicoanalisi e del pensiero
della differenza sessuale, che hanno dimostrato come questo mosaico composto che è la
persona sia conflittuale, dissidente, diviso al suo interno. Ci serve Deleuze e la sua
fenomenologia della percezione. Non siamo persone, diceva Deleuze, ognuno di noi è come
un vento che entrando in un ambiente curva lo spazio in modo inconfondibile e
irripetibile. Una definizione della singolarità ben più pregnante della figura
dell'individuo moderno puntellato dai diritti... Se ripensata a partire da questa
singolarità, anche la comunità cambia: diventa una comunità di esperienze e di
vibrazioni, con un transito continuo fra razionalità, corporeità, passionalità. Un
intreccio di ethos e áisthesis, una comunità non solo valoriale o segnica
ma anche corporea, e tuttavia senza più traccia del "corpo mistico" della
comunità degli identici tradizionale.
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