La Repubblica 14 luglio La protesta a
rischio ultras
michele serra
Della violenza politica, in vista di Genova, si parla, largamente, soprattutto per
avvertire della sua improduttività: se rompete le vetrine rendete impopolare la vostra
causa.
È una maniera molto speculativa, mi pare, di considerare la questione. Abitua a
distinguere tra violenza «utile» e «inutile», ingrassa il già troppo pingue dibattito
sul «cui prodest?», e insomma evita il vero rovello etico che ogni movimento di
opposizione deve o dovrebbe affrontare: la violenza è giusta o ingiusta? (La presente
contingenza, tra l'altro, ponendo come principale bersaglio del movimento un'ideologia
accusata di bieco utilitarismo, suggerirebbe di non adottare il suo stesso misero
bilancino. Se disgusta che l'utile e l'inutile valgano per decidere, mettiamo, le sorti di
un popolo amazzonico, così come vorrebbe il mercato del legname, perché mai dovrebbero
valere per le sorti di una causa che quegli indios vuole difendere?)
Molti della mia generazione sono stati segnati, e hanno segnato altri, proprio per avere
bypassato la riflessione etica sulla violenza. Nel senso che la discussione sui mezzi fu
appena il corollario della discussione sui fini, un machiavello volgarizzato e buono per
sopire le coscienze e seppellire i morti (i propri e soprattutto gli «altrui») senza
creare eccessivo intralcio alla Storia, glorificata e mostrificata come un dio degno di
qualunque sacrificio, anche umano.
Quel che non sapevamo e non capivamo è che mezzi e fini, anche a causa della brevità
della vita umana (molto ma molto più breve della Storia...), sono la stessa cosa, vagoni
dello stesso convoglio, parole dello stesso discorso, che escono dalla stessa bocca lo
stesso giorno. E che un rivoltoso violento e impietoso sarebbe più facilmente diventato
(come poi è accaduto, oh se è accaduto....) un potente cinico, un manager stronzo, un
ministro poliziesco, un licenziatore menefreghista, un giudice sprezzante, poiché
tradurre la violenza da una strada a un palazzo è facile come prendere un ascensore.
Così che la celebre frase che Eugene Ionescu lasciò cadere (si dice) dalla sua finestra
sui ragazzi del maggio francese («diventerete tutti notai»), pur se mondata del suo
spregio reazionario, contiene almeno questa parte di verità: che tra lo zelo incendiario
di un ventenne e lo zelo pompiere di un adulto c'è almeno una cosa in comune, e cioè lo
zelo.
Questo zelo - che è l'ottuso e fanatico onorare le proprie regolette a scapito degli
altri - è alla base di ogni violenza, di ogni «ho solo obbedito ai miei capi», «ho
solo servito le mie idee». Quando poi queste idee siano vissute, come accade all'aurora
di ogni movimento rivoluzionario, come un sistema superiore di giudizio, allora la
violenza appare come la somministrazione salvifica ed esemplare di un rimedio a chi non è
in condizione di intendere, e deve essere sottomesso. Unico (credo) tra gli ex capi
brigatisti, il genovese professor Fenzi disse a Sergio Zavoli che l'uovo del suo serpente
era stata «la superbia». Una sola parola per indicare quel tenebroso superioritycomplex
che armò la mano di tanto marxismo rivoluzionario, convinto di poter procedere a suo
arbitrio sul corpo vile degli uomini proprio perché aveva intuito, lui solo, la brutale e
reale natura dei rapporti sociali.
La brutalità del potere, oggi in specie del potere economico, non rischia di diventare
nuovamente il pretesto per contraddirlo sul suo medesimo campo, in buona sostanza
imitandolo? Non a caso rivoluzionari e oppositori di ogni epoca e luogo si sono ingegnati
per cambiare il ring e le regole del match. Questo movimento, in particolare, è fervido
di proposte e linguaggi spiazzanti, che non replicano la trita logica della conquista
forzuta degli spazi fisici (si veda la proposta, fatta propria da Beppe Grillo, di
applicare la pena di morte non più alle persone fisiche, bensì alle persone giuridiche,
per esempio le aziende colpevoli di misfatti ambientali di particolare gravità). E
perfino riguardo alla conquista degli spazi fisici, questo movimento studia e applica
strategie di resistenza passiva che dicono quanta apprensione susciti, tra le persone di
buona volontà, l'eventualità di uno scontro cruento.
Ma proprio perché questo movimento sembra avere introiettato, almeno nella sua larga
maggioranza, mentalità e tecniche non violente, allarma immaginarlo parassitato da
eventuali frange di sfasciatori che vanno a ogni piazza come il fanatico ultra allo
stadio, e cioè con la pretestuosissima gioia di trovare finalmente un buco ideoneo al
proprio orgasmo. Si sa, per triste esperienza, che quando la piazza sussulta i violenti
moltiplicano il numero e le forze, e la rubano agli altri. Non sono solo «inutili alla
causa», sono, ed è ben peggio, dannosi alle persone vive e miti che hanno la sfortuna di
condividere l'ora e il luogo, sono i primi candidati a trasformare nuove ragioni in
vecchie abitudini di potere, teorici della prevaricazione, esecutori della sottomissione
immediata di tutto e tutti al loro bastone, ai loro muscoli, alle loro urla.
Le esperienze passate valgono poco, e quando si cerca di trasmetterle puzzano subito di
pistolotto moralista, tipico di quando l'adulto parla al ragazzo. C'è solo da augurarsi
che questo movimento trovi ben prima dei precedenti il difficilissimo, faticoso bandolo
dell'autodifesa dai violenti (i suoi violenti anzitutto), prima che i violenti arrivino a
umiliarlo e svuotarlo, come sanno fare i prepotenti di sempre quando profittano dello
stupore e dell'incertezza altrui. |