Manifesto 7 agosto 2001 POLITICA
O QUASI
Genova, dalla parola all'"acting out"
IDA DOMINIJANNI
Vorrei sentire la testimonianza di una, o uno, che a Genova s'è
innamorata. Sarà ben accaduto, ma non ce n'è traccia né parola né immagine. Immagini e
parole sono concentrati su tutt'altro che sul lato desiderante (desiderio dell'altro,
desiderio di politica, desiderio di conoscenza: spesso vanno assieme) del movimento:
restituiscono prevalentemente la sequenza violenza-repressione o, quando va bene,
repressione-autodifesa. Sia chiaro, dobbiamo essere grati a tutte quelle telecamere che
seguivano i fatti come il loro specchio: senza, le efferatezze delle forze dell'ordine non
sarebbero state documentate, della morte di Carlo Giuliani ci avrebbero raccontato quello
che tuttora Francesco Cossiga racconta di Giorgiana Masi ("cadde dal ponte"), di
Genova in assetto di guerra ci sarebbe stato impossibile rendere l'idea. Ma la telecamera,
si sa, sceglie, taglia, monta, toglie contesto; quello che l'informazione non dice è il
prezzo che sempre si paga per quello che riesce a dire. Il prezzo che stiamo pagando per
documentare la dinamica degli scontri, è di ridurre tutto a violenza, tagliando il resto.
Quando parleremo dei tagli, a cominciare dalla dinamica desiderio-frustrazione? Se provo a
immedesimarmi in una ragazza che era andata a Genova spinta dal desiderio di contestare il
biopotere globale sui corpi, e si è ritrovata nella caserma di Bolzaneto a vergognarsi di
essere un corpo pestato e umiliato, non sono sicura che dopo questo impatto con lo stato
di diritto avrei scelto una via francescana al mio desiderio di politica frustrato.
Su questo giornale e altrove l'urgenza di parlare di ciò che resta fuori dalla
rappresentazione mediatica prevalente è già stata espressa, come premura per la
salvaguardia della pluralità di tematiche e di pratiche del movimento. Giulio Marcon (il
manifesto 4/8) ha messo in guardia efficacemente dalla "clamorosa
dimenticanza" di temi, soggettività e pratiche pacifiste, eco-sociali, femministe,
che non sono "aggiunte" a una tradizionale agenda di contestazione, bensì
chiavi di lettura che nell'ultimo trentennio hanno già messo in discussione
"i paradigmi di una cultura politica di sinistra che ha ancora difficoltà a
liberarsi da una concezione 'militare' e 'muscolare' (cioè maschile) della
politica". Non dimenticarsi di queste "chiavi di lettura", aggiunge Marcon,
significa rifiutare "la retorica (in caso di simulazione) e la pratica (se reale)
dello scontro, che invece di far risaltare le ragioni del conflitto rischia di
banalizzarlo con la sua mediatizzazione tipica da società dello spettacolo".
Concordo e tuttavia, quanto alle pratiche, credo che Genova possa suggerire qualche passo
in più, proprio per l'impasto di simulazione e realtà, politica della rappresentazione
(massmediale) e politica dei muscoli, che tutti gli attori in campo hanno messo in scena.
Per meglio dire: dal registro della rappresentazione, a Genova tutto è repentinamente
scivolato al registro dell'atto, anzi dell' acting out.. Sul lato del potere, il
set da film di guerra pronto per l'uso allestito a Genova è diventato un realissimo campo
di battaglia. Sul lato delle Tute bianche (parlo di loro, perché il tema attiene alla
loro pratica) questo violento "passaggio all'atto" da parte del potere è stato
spiazzante: "la pratica basata sul binomio messa in scena dello
scontro-contrattazione con le forze dell'ordine è andata in pezzi", osserva
Benedetto Vecchi intervistando Luca Casarini (il manifesto 3-8). Casarini registra
lo spiazzamento e annota: le istituzioni ci hanno ingannato, non sono state ai patti, non
hanno rispettato nessuno degli impegni presi con il Gsf sul non uso delle armi da fuoco e
sul diritto a manifestare. Vero (ma non sorprendente: le istituzioni non sempre stanno ai
patti). Ma è questa l'unica spiegazione dello scivolamento dalla rapprentazione all' acting
out dello scontro?
Luisa Muraro, in un intervento sui fatti di Genova (anche autocritico: la parola femminile
doveva farsi sentire prima, scrive Muraro) che vi invito a leggere nel sito
www.libreriadelledonne.it, suggerisce altre risposte, che toccano anche alcune ingenuità
del "movimento dei movimenti". Il quale, sostiene Muraro, è andato "troppo
vicino all'avversario", cioè sul suo territorio (Genova blindata, la gabbia della
zona rossa) e sul suo terreno (cercando interlocuzione diretta con i "sedicenti
Grandi"); e si è affidato troppo alla risonanza dei massmedia, vincendo sul piano
dell'immagine il primo round ma perdendo il secondo, quando l'avversario ha contrattaccato
inondando di filmati sulla violenza lo schermo televisivo. A questo duplice errore, Muraro
contrappone la politica del simbolico com'è praticata dal femminismo della differenza:
una politica che fa leva non sui muscoli ma su desideri e relazioni; che non si fa
trovare, e spiazzare, nei grandi appuntamenti altrove decisi ma agisce, e spiazza, in ogni
contesto; e che trova le parole per dire l'esperienza e "lo scambio di cose
essenziali" più che affidarsi alla risonanza mediatica.
Parrà sottile, invece è un punto cruciale per capire lo scivolamento (a Genova e non
solo: penso ad alcune assonanze con gli anni '70) dalla rappresentazione simbolica del
conflitto all'acting out dello scontro. In politica, parola e rappresentazione
producono sempre realtà, e oggi, in tempi di politica mediatica, tanto più. Perciò
sempre la politica è politica del simbolico. Ma c'è modo e modo di intenderla, perché
c'è parola e parola. C'è la parola che si stacca dalle "cose essenziali" -
compresi i sentimenti di paura e sopraffazione, tanto ricorrenti ora nelle testimonianze,
soprattutto femminili, di Genova -, se ne va per i cieli della metafora e dell'etere, e
scivola incontrollata, o viene catturata, in un passaggio all'atto che non presumeva e non
prevedeva. E c'è la parola che resta più vicina ai corpi, e qui trova la misura del dire
e del fare. Forse, la terza via che Luca Casarini cerca, "tra chi testimonia il
rifiuto della globalizzazione economica e chi opta per il gesto esemplare di demolire una
banca" passa anche per questa sottile differenza.
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