Corriere della sera 1 agosto 2001
I PERSONAGGI

Quei superpoliziotti che hanno segnato la stagione dell’antimafia

ROMA - Dentro questa brutta storia ci sono i migliori poliziotti d’Italia. O, almeno, quelli che sembravano proprio i migliori. È pazzesco che siano finiti tutti in quella scuola di Genova, la «Diaz». Chi prima, nella notte della perquisizione e dei pestaggi, e chi dopo, per accertare, capire, per suggerire le pene giuste destinate ai colleghi. Essendo stati a lungo certamente i migliori, si conoscono da anni. E bene. Hanno diviso stagioni di investigazioni difficili, rischiose, impossibili. Hanno arrestato assassini, mafiosi, sequestratori, banditi. Hanno dormito insieme con le pistole in tasca e adesso stanno da una parte e dall’altra. Sbirri che indagano su altri sbirri.
Perché anche il principale accusatore, Giuseppe Micalizio detto «Pippo», è uno di quelli che ha fatto appostamenti, irruzioni, che ha dormito con un occhio solo. Pure se lui, a differenza degli altri, ha sempre avuto l’aria del manager. Poche parole, e misurate. L’aria imperturbabile e astuta. Fin dagli inizi: quando, a Milano, giovane funzionario del reparto «volanti» e poi della Digos, decise che era giusto fondare un sindacato. Lo chiamarono Siulp e lui ci mise sopra la voce di chi - era il 1981, rapimento del generale americano Dozier, le truppe speciali dei Nocs che lo liberano con un blitz - disse che «gli agenti della polizia di Stato non dovevano comunque usare metodi violenti nei confronti dei brigatisti». Sempre nella parte del poliziotto con il senso dello Stato. Inflessibile e corretto. Ambizioso: capo di gabinetto della Dia al cui comando c’era l’attuale capo della polizia Gianni De Gennaro. Poi vice-direttore. Poi ancora direttore del Servizio centrale antidroga. Fino a diventare, pochi mesi fa, ispettore del Viminale.
Una carriera diversa - non per prestigio, ma per metodo - da quella di Arnaldo La Barbera, capo dell’Ucigos, il servizio di antiterrorismo: l’ispettore Giuseppe Micalizio, su di lui, adesso sospende il giudizio, facendo però capire che ha assistito a quanto di eccessivo accaduto nei corridoi dell’edificio scolastico.
Per generazioni di investigatori, La Barbera è una specie di leggenda. Prima di diventare questore di Palermo, Napoli e Roma, e quindi assumere l’incarico di capo dell’Ucigos, il servizio antiterrorismo e prevenzione, è stato soprattutto il capo della squadra Mobile del capoluogo siciliano. Ci arrivò a 45 anni. Fumando 60 sigarette al giorno, bevendo un caffè ogni ora e dichiarando di non saper rinunciare a due sole cose: alle camicie Brooks Brothers’s e alla sua 357 magnum. A Palermo - città che apparteneva al superboss Totò Riina - girava senza scorta. Un pomeriggio stava facendo la sauna, nel centro estetico «Franco ed Enzo». Entrarono due balordi. Pistole-giocattolo in pugno. Non finirono di gridare che era una rapina. Lui sparò da sotto l’asciugamano e ne ammazzò uno. Intervistato, poco dopo, disse: «Lo so, in certe situazioni la polvere da sparo può far male».
Anni difficili: investigava a Palermo anche Francesco Gratteri, l’attuale capo dello Sco, che Micalizio ha infilato nell’elenco dei tredici funzionari per cui suggerisce «un’inchiesta disciplinare». Pure Gratteri: quand’era alla Dia, prima fece arrestare gli assassini di Giovanni Falcone, poi - due anni dopo, nel ’95 - contribuì alla cattura di Leoluca Bagarella. L’anno seguente, già da vice-capo dello Sco, prese pure Giovanni Brusca.
Sbirri veri e amici. Compreso Francesco Colucci, il questore di Genova. Capo della Criminalpol a Milano, quando il capo della Mobile meneghina era - appunto - Giuseppe Micalizio.
Una storia tragica.

Fabrizio Roncone