Manifesto 25 luglio 2001 COMMENTO
Potere d'arbitrio
LIVIO QUAGLIATA
Alcune centinaia di migliaia di cittadini la scorsa settimana hanno
sperimentato che cosa voglia dire vivere sotto una dittatura militare. Non avremmo mai
immaginato di scomodare questo genere di frasi senza ritrovarci a sorridere di noi stessi.
Eppure così è stato, in uno spazio (la città di Genova) e in un tempo (da mercoledì,
primo giorno di "zona rossa", a domenica) limitati.
Cosa ci resta in tasca oggi? Una speranza, e la paura.
La speranza sta in noi stessi, che in questi giorni abbiamo scoperto di poter essere
migliori di quanto non siamo stati capaci di essere fino a ieri: noi che sabato mattina
mettevamo un pezzo di plastica nera intorno al braccio, che nonostante tutto ci
abbracciavamo in piazza Ferraris, che gettavamo acqua e panini dalle finestre, che
aprivamo le nostre porte di casa per soccorrere i feriti. Sta in quelle migliaia di
ragazzini che domenica lasciavano Genova con gli zaini in spalla e una rabbia profonda,
ingenua e non vendicativa, negli occhi: molti di loro capiranno fin troppo presto di non
essere stati picchiati "senza ragione". Sta anche in quelle migliaia di adulti
moderati se non altro per età, che hanno visto e infine compreso.
Ma a Genova c'erano anche migliaia di altri giovanissimi e adulti: poliziotti,
carabinieri, finanzieri, forestali, militari. Anche loro hanno sperimentato che cosa
voglia dire vivere sotto una dittatura militare, ma dall'altra parte. A tutti loro che
cosa è rimasto in tasca? Questa domanda ci fa paura. Perché migliaia di cittadini, dai
diciotto anni in su, armati in virtù della legge, per cinque giorni e cinque notti, a
Genova, hanno sperimentato il potere puro, l'arbitrìo assoluto. Hanno potuto far passare
e non far passare, perquisire, sfottere, insultare, minacciare, infiltrare, provocare,
picchiare, torturare, uccidere. Lo hanno fatto mentre il mondo li stava filmando e
fotografando, e non hanno avuto paura. "Il mondo vi sta guardando" gridavano
sabato notte i ragazzi fuori dalla scuola Diaz. Dentro la scuola il massacro non si
fermava, per ulteriori informazioni era stato inviato sul posto il capo ufficio stampa del
Viminale.
Molte delle persone che erano a Genova hanno avuto la forza di chiedere conto e
giustificazione del loro comportamento agli uomini e alle donne in divisa, ai varchi della
"zona rossa", ai cordoni prima delle cariche. In troppi casi, e con troppo
orgoglio, prontamente le divise hanno loro risposto "Io sono un numero". Non
"sono solo un numero", un disgraziato, una vittima, più o meno quanto
voi. No, "Io sono un numero", faccio parte di una squadra, di un gruppo, di un
disegno i cui contorni non conosco bene ma in cui mi specchio e che mi fa sentire bene.
Hanno provato l'ebrezza della libertà armata. Domani chi dirà loro che si è trattato solo
di un esperimento?
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