Corriere della sera 29 luglio 2001
L’asilo, le armi, i pullman: i tre giorni dei Black Bloc

Spranghe e biglie d’acciaio nascoste in una scuola. La custode: chiamata la polizia ma non è intervenuta

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA - Il braccio destro alzato e il pugno chiuso. Con due sole dita tese: il pollice e il mignolo. Non era e non è mai stato il simbolo della protesta. Dell’antiglobalizzazione. «Era il segnale di battaglia», spiega Ulia, la portavoce del coordinamento studentesco delle Tute bianche di Milano. Il segnale convenzionale degli insurrezionalisti del Black bloc. Un braccio si alzava «e all’improvviso si riunivano decine di Tute nere». Con sacchi pieni di pietre e biglie d’acciaio, o cassonetti d’immondizia con spranghe e bastoni. E iniziava l’attacco. «Non sapevamo nulla di questo accordo. Lo abbiamo scoperto soltanto dopo. Al rientro quando ci siamo confrontati sull’accaduto», aggiunge Ulia. Sul treno, mentre i disobbedienti del centro sociale Leoncavallo tornavano a Milano e mentre arrivavano le prime, drammatiche notizie dell’irruzione alla scuola Diaz, nella sede del Genoa Social Forum.


MIMETIZZATI - A Genova le Tute nere agivano così. Si mischiavano tra la folla dei manifestanti pacifisti «per meglio confondersi. E all’improvviso si riunivano. Che avessero un segnale per riconoscersi, oltre alle magliette nere, ai tamburi, alle bandiere, era scontato», aggiunge Elia del Network di Vicenza. Si mimetizzavano nei cortei. Proprio come hanno fatto per la sistemazione logistica. «Per evitare di essere rintracciati e fermati prima del tempo. Ma anche perché non avevano una regia precisa», spiega l’«anticapitalista» veneto. Il centro che lui coordinava, assieme ad altri ragazzi del Network giunti da tutta Italia, quello di via dei Ciclamini, ha ospitato numerosi anarchici. «Del resto non chiedevamo la carta d’identità». Qui l’accoglienza era aperta a tutti. E la sera di giovedì 19, «con la pioggia che cadeva, sono arrivati da noi decine di giovani. Mai visti prima e mai più rivisti. Tute nere? È molto probabile. Anzi, ne sono pressoché certo». Ragazzi di poche parole. Arrivavano in silenzio e in silenzio se ne andavano. «Davano quasi i brividi», ammette Barbara della rete Lilliput ligure. Ribelli in tutto e per tutto, che rievocavano i fantasmi del passato. Quelli dei fuochi degli anni bui delle violente contestazioni di piazza. Anche loro avevano una zona proibita: una zona «nera» nella quale era difficile se non impossibile entrare. Tanti. Distesi sulla ghiaia dei Ciclamini. Molti di più rispetto allo stadio Carlini, la sede ufficiale dei disobbedienti. Qui i controlli erano decisamente più severi: «A quelli che arrivavano indicavamo la dislocazione del movimento di appartenenza. Ma a chi restava, non chiedevamo la tessera della disobbedienza», specifica Roberto del centro Makaya di Milano. E dopo i disordini del sabato nero «non c’è più stato controllo. È possibile che si fosse infilato qualche anarchico».


ACCOGLIENZA - In via Ciclamini, al Carlini, ma anche e in particolare al centro sportivo della Sciorba e «tra gli irriducibili del Pinelli o dell’Inmensa», insistono alla Polizia, nonostante le continue smentite dei centri sociali genovesi. Le Tute nere erano dappertutto. Almeno settecento, secondo le cifre delle forze dell’ordine. «Sicuramente più del doppio», dicono Stefy e Peppe del Network per i diritti globali. Anche perché «tanti sono quelli che si sono aggregati all’ultimo momento, per spirito emulativo». Soprattutto anarchici stranieri: tedeschi, greci, slavi, baschi, inglesi. Stranieri «perché molti italiani sapevano dove e da chi andare. Avevano già fissato le basi a casa di amici e compagni di battaglia. O in alcuni alberghi», evidenzia Alfio Nicotra, responsabile nazionale per il settore pace di Rifondazione Comunista e rappresentante del Prc nel Genoa Social Forum. Lui i primi pullman di Black blockers li ha visti arrivare con qualche giorno d’anticipo rispetto al summit degli otto Grandi. «Era la sera del 17 luglio. Mi hanno segnalato due autobus sospetti e carichi di persone nella zona della Sciorba». Una segnalazione che è stata subito girata «alla questura. Ma si vede che è rimasta sui tavoli dei funzionari: nessuno ha fatto nulla per controllare quei bus». Il controllo, in verità, ci sarebbe stato. Ma senza risultati positivi.


ASILO NIDO - Cento di qua, duecento di là. «Ma almeno trecento proprio in casa nostra», attacca Eugenio Massolo, assessore alla Programmazione e alla gestione delle strutture formative della Provincia di Genova. Vale a dire nel parco della struttura di via Maggio nel quartiere Quarto, che accoglie l’asilo nido Scrigno, la scuola materna Prato Verde e alcuni uffici dell’Amministrazione. Mescolati tra i pacifisti dei Cobas. «Struttura che abbiamo messo a disposizione, assieme alla scuola Diaz», quella del blitz di sabato notte, specifica Marta Vincenti, presidente della Provincia. Quanto accaduto in quei giorni «è a dir poco sconcertante», continua l’assessore. La sera di giovedì 19, il giorno prima degli scontri in cui ha perso la vita il 23enne Carlo Giuliani, «la custode della scuola mi ha telefonato a casa dicendo che alcuni ragazzi avevano sfondato le porte ed erano entrati nelle scuole». Fin troppo evidente l’obiettivo: «La palestra, da dove si sono riforniti di bastoni dalle spalliere per gli attacchi e di materassini di gomma per le protezioni. Sono andato sul posto e ho subito chiamato la polizia». Risultato: «Mi hanno risposto che era molto meglio non intervenire. Per evitare disordini». Il giorno dopo e quello successivo sarebbe andata anche peggio. «Avevamo raccolto evidenti elementi che facevano ritenere che quello era uno dei punti di riferimento delle Tute nere», dice Massolo. Quindi nuove segnalazioni. Di cui non si riesce ad avere conferme o smentite. «Comunque in modo pressante. A tutti: alla questura, ai carabinieri, alla prefettura. Ma ancora niente. Dalle immagini dell’elicottero, trasmesse dalla televisione, si vedeva chiaramente che un furgone faceva la spola tra la scuola e i punti degli scontri per rifornire gli anarchici di armi». Un furgone e due auto, con targhe tedesche, che un dipendente della Provincia si è annotato. «Sabato in verità c’è stato un intervento. Con una decina di furgoni della polizia. Ma ancora una volta a vuoto. Ho chiesto spiegazioni a un funzionario della questura. La risposta? L’azione di forza era ritenuta impraticabile e inopportuna. Ha capito bene: inopportuna». Il resto è la cronaca che tutti conoscono. «Quello che non si sa è che lunedì e martedì scorsi la Digos ha posto sotto sequestro la nostra scuola. In gran parte distrutta. Per una bonifica. Abbiamo dovuto aspettare fino a giovedì pomeriggio per entrare. Ho fatto controllare il giardino dalla polizia della Provincia e abbiamo trovato di tutto». Spranghe, bastoni, biglie d’acciaio, una fionda, bandiere con i simboli dei ribelli neri, passamontagna, magliette «che abbiamo consegnato alla Procura, assieme a un esposto in cui raccontiamo nei minimi dettagli quanto accaduto», conclude Eugenio Massolo. Ancora adesso non sa spiegarsi «perché non si è intervenuti», ed elenca i danni («due miliardi e 350 milioni di lire»). Frattanto i bambini sono stati trasferiti alla scuola dell’infanzia Gnocco Massa di Quinto.


ORGANIZZAZIONE - Dappertutto. E ben organizzati. Sia per quanto riguarda l’accoglienza. Sia per quanto riguarda gli attacchi. «Giravano con una borsa. Dentro avevano magliette e passamontagna neri. Ce lo hanno confermato alcuni commercianti delle zone devastate», evidenzia Mario Montessolo, responsabile del settore sicurezza dell’Ascom-Confcommercio. «Si muovevano a gruppi di dieci. Mentre due o tre rimanevano fuori a fare da palo, gli altri distruggevano i negozi. Poi si cambiavano e si mimetizzavano tra i manifestanti». Veloci, pronti a tutto «ma anche guidati. Perché sapevano dove colpire», con ogni probabilità indirizzati da estremisti genovesi. «Non è infatti un’assurdità credere che nel caos generale qualcuno abbia consumato vendette o risentimenti personali contro qualche commerciante o istituto di credito».


SERVIZI D’ORDINE - Neppure i controlli organizzati dagli stessi manifestanti sono riusciti a fermarli. «Avevamo un nostro servizio d’ordine», sottolinea Bruno Paladini dei Cobas di Firenze ed esponente del Movimento antagonista toscano. Per controllare che la manifestazione di sabato «si svolgesse senza incidenti. In più occasioni siamo intervenuti direttamente per fermare quelle teste calde». Ma niente. Anzi «uno dei nostri è stato colpito a bastonate, mentre la polizia caricava». Ma loro, le Tute nere «spuntavano all’improvviso», aggiunge. In piazzale Kennedy, sul lungomare, in piazza Paolo Da Novi, in piazza Manin, in via Montesuello, in via Pisacane, a Punta Vagno, nei pressi della stazione ferroviaria di Brignole, a Quarto, in zona Marassi. In qualsiasi angolo ci fosse un agente, un carabiniere, un finanziere o un negozio da mettere a ferro e fuoco. Era sufficiente quella mano alzata e quelle due dita tese. «E scoppiava l’inferno», ricorda Angelo delle Tute bianche piemontesi. Un inferno «che faceva paura anche a noi disobbedienti».
Davide Gorni