Corriere della sera 26 luglio 2001
Troppa indulgenza per certi ribellismi

VIOLENZA, PERICOLO DI ASSUEFAZIONE

di CLAUDIO MAGRIS

Il vizio è il peccato divenuto abitudine, un’assuefazione a comportamenti illeciti che ottunde la consapevolezza del male e finisce per considerarlo normale o comunque inevitabile e perciò accettabile. La dilagante pratica del furto, della corruzione e della concussione, emersa alcuni anni orsono, ha persuaso parte dell’opinione pubblica - manipolata dai ladri - che il latrocinio sia ammissibile o quantomeno scusabile e che i guastafeste non siano i lestofanti, ma i giudici e i carabinieri che perseguono i loro reati; Alberto Cavallari, direttore del Corriere , fu querelato per aver contestato quest’assuefazione alla violazione della legge. La frequenza d’inaudite e bestiali violenze commesse contro persone e cose in nome del calcio viene considerata una consuetudine da tollerare o tutt’al più da arginare (debolmente), anziché un gravissimo reato, aggravato da motivi futili e abietti, da reprimere con dura energia, perché è inammissibile devastare, percuotere, talora massacrare per un gol; è insensato che io venga giustamente punito con severità se distruggo un bar o spacco la testa a qualcuno perché infuriato da una delusione amorosa e che venga invece trattato con indulgenza se lo faccio muggendo il mio amore per la Triestina. Anche le discussioni sui fatti di Genova rivelano - a parte il giudizio politico sul G8 e la sua contestazione - una generale tendenza a considerare accettabile - o addirittura encomiabile - un certo grado di violenza e di violazioni della legge, alla quale ci si è evidentemente assuefatti. Alla magistratura spetta appurare le responsabilità di chiunque, dimostranti e forze dell’ordine, e - una volta accertati eventuali reati - punirli senza riguardi per nessuno. Ma anche senza cedere a nessuna assuefazione, a nessuna forza dell’abitudine alla violenza. Se un poliziotto colpisce col manganello un pacifico cittadino non intento a nessun atto pericoloso, va punito, tanto più in quanto viola la legge che è chiamato a tutelare. Ma se qualcuno tira una grossa pietra o un cubetto di porfido contro un poliziotto, va punito e non solo genericamente deplorato o magari, come spesso si sente, sentimentalmente compreso e quasi lodato per non aver tirato invece una bomba molotov.
La magistratura qualificherà giuridicamente le responsabilità della tragica morte di Carlo Giuliani. Ma l’immagine di quella camionetta di carabinieri accerchiata e aggredita con armi improprie ma costituenti una grave minaccia è l’immagine di una situazione intollerabile, che si può e si deve reprimere senza provocare morti (una polizia efficiente esiste per questo) ma che non può essere presa sotto gamba come un’esuberanza eccessiva. Se è vero che alcuni dimostranti hanno dato fuoco a un casamento abitato, essi - ovviamente una volta accertate rigorosamente le responsabilità di ogni singolo individuo - dovrebbero essere processati per tentata strage, perché incendiare una casa, come mettere una bomba, significa attentare alla vita di chi vi abita e non è un allegro e tutt’al più sfrenato falò di una festa all’aperto. Neppure la violenza sulle cose può essere sottovalutata come un perdonabile sfogo, perché è inammissibile che qualcuno, ad esempio il proprietario di un negozio, venga letteralmente rovinato.
A tutto questo si può replicare, giustamente, che non esiste solo la violenza di piazza, ma pure quella tacitamente compiuta dai regimi, dai governi, da chi detiene il potere sociale e sa compiere infamie tenendole ben nascoste e rendendole perfino accettabili con le buone maniere.
Le fugaci notizie di bambini brasiliani mutilati o uccisi per strappar loro gli organi da vendere lucrosamente o la morte per inedia d’intere moltitudini in altri continenti occupano poco spazio sui giornali e turbano poco le nostre coscienze, come tante altre efferatezze commesse lontano da noi o comunque fuori dalla nostra vista e commesse dal mondo, dal sistema e dalla società di cui facciamo parte. Nel suo capolavoro «Il fascino discreto della borghesia» Buñuel dimostra come ognuno di noi, distratto dalla buona educazione di quei personaggi rispettabili, dimentica che essi sono delinquenti, trafficanti di droga, torturatori, e sarebbe pronto ad andare amabilmente a pranzo con loro, affascinato da quella garbata, spaventosa, infera seduzione di classe.
Certo, esistono l’occulta violenza e ingiustizia praticate da molte istituzioni, da chi è ai vertici della società e talora degli Stati. Ma dinanzi a questa consapevolezza bisogna decidere. Si può ritenere di vivere in un regime democratico solo di facciata e di fatto totalitario e violento, che non può essere riformato e migliorato democraticamente, e pensare che occorra dunque combatterlo con la violenza, così come si fa in una guerra. È la scelta terrorista, che abbiamo conosciuto un paio di decenni fa. In questo caso ci si mette fuori dalla legge e contro la legge, considerata anzi la violenza del potere, ma non si chiede nemmeno di essere protetti dalla legge e non si protesta contro la sua violazione da parte della polizia. Se invece si ritiene - come ovviamente credo si debba ritenere - di vivere in un sistema che, nonostante le sue pecche, permette una sostanziale democrazia e dunque può e deve venire corretto solo democraticamente, allora si devono combattere strenuamente le storture della nostra società ma nel rispetto della legge. Non ci si può assuefare a nessuna violazione di quest’ultima, per quanto largamente possa essere praticata, e non si può tollerare nessuna ingiustificata manganellata poliziesca e nessun lancio di pietre contro un poliziotto, nessun rogo di automobili, nessuna infrazione. Dinanzi alla violenza, anche contenuta, lo Stato non può «trattare», come non poteva e non doveva trattare con i brigatisti.
La tragedia di Genova è doppiamente dolorosa, anche perché nasce da una grande messinscena retorica, a cominciare dalla riunione del G8, che conta assai meno di quanto enfaticamente si dica, perché non è certo in quelle occasioni che i potenti della Terra decidono le sorti del mondo e dei più deboli, le quali purtroppo, anche senza il G8 dipendono da chi è economicamente e politicamente più forte. Inoltre, come è stato scritto in un articolo apparso sul Piccolo il 22 luglio, i ruoli fra sostenitori e contestatori del G8 si sono invertiti, perché a contestarlo dovrebbero essere semmai gli ultraliberisti, contrari a qualsiasi interferenza nel puro e selvaggio meccanismo del mercato, mentre i fautori della solidarietà e dell’intervento contro la miseria dovrebbero piuttosto accusare il G8 d’intervenire troppo poco, d’investire troppo poco nella lotta alla fame o all’Aids.
Senza capacità logica, non c’è democrazia. Fra tanti commenti di questi giorni, uno dei migliori è stato un comunicato del piccolo Partito dei comunisti italiani che - distinguendosi da tante voci demagogiche, autoritarie, tartufescamente caute o clericalmente vaghe, anzi vacue - ha stigmatizzato il confuso ribellismo di tante proteste e dei loro supponenti leader, spesso salottiero e ideologicamente reazionario, nonostante gl’indubbi sentimenti nobili di tanti giovani. Il comunismo ha sempre combattuto questo ribellismo sentimentale e pasticcione, che storicamente in passato è stato un vivaio e un calderone dei fascismi. Il merito del comunismo - non cancellato dalle sue colpe - è stato quello di trasformare in forze politiche consapevoli e responsabili quelle che altrimenti erano plebi oppresse, genericamente rivoltose ed eccitabili, estranee alla coscienza politica e manipolabili a piacere, che esso ha fatto divenire componenti costruttive dello Stato. In questo senso esso ha contribuito a creare quella società civile di cui quella che una volta si chiamava la classe operaia è stata un elemento essenziale, cui va il riconoscimento anche da parte di chi ha sempre avversato il comunismo e il suo progetto.
Il «popolo di Seattle» è e può essere un movimento di grande rilevanza internazionale, capace d’influire sulla politica mondiale, solo se non degenera in sfoghi magari appassionati ma retrivi. Il ribellismo - anche a parte le frange esplicitamente criminose, le cosiddette tute nere - è una pappa del cuore modellabile a piacere, una contestazione sinistrorsa da cui facilmente può nascere un movimento di destra. È una vecchia storia, come quella di coloro che nel ’68 squartavano i libri, espressione secondo loro della falsa cultura borghese complice del «sistema», e poco dopo, in molti casi, sono passati giulivamente dall’altra parte e ne sono anzi una colonna portante.
Claudio Magris