La Stampa 25 luglio 2001
«Attenzione, può risorgere il terrorismo»
Lerner e Bettin: il rischio c’è se si criminalizza il movimento

inviato a GENOVA
NON soltanto la parola «cellulare» riprende il significato d’antan, non soltanto Arturo Diaconale recupera sul Giornale l’espressione - «togliere l’acqua in cui sguazzano i pesci» - cara a Ugo Pecchioli, non soltanto insomma riaffiora il lessico degli Anni 70, ma anche altre suggestioni, meno innocenti.
Nel novembre 1969, in morte di Antonio Annarumma, primo agente vittima degli scontri di piazza, trafitto da una sbarra mentre guidava una camionetta, il giornale «Lotta continua» pubblicò in prima pagina la foto di un gruppo di manifestanti che assaliva un’altra camionetta. Una foto simile anche a quella della morte di Carlo Giuliani, primo ragazzo ucciso in piazza dal ’77. Il titolo diceva: «Tra polizia e operai la ragione non è dalla parte di chi ha il morto; è sempre dalla parte degli operai». Quella foto non raffigurava l’omicidio di Annarumma, non lo rivendicava; ma neanche lo condannava. Lo evocava. Non significava «siamo stati noi», ma neanche il suo contrario. Intendeva: va bene così. Più o meno lo stesso diceva, con sarcasmo feroce ma non privo di efficacia, la didascalia di una foto di Pino Rauti incerottato dopo un’aggressione: «Colpa nostra non è, ma della metropoli tentacolare».
Venerdì scorso, poche ore prima della morte di Carlo, Luca Casarini, in marcia verso la zona rossa al canto di «Fumo nero, copertone brucia/fumo nero, sopra la città» della Banda Bassotti, rispondeva così a una cronista che gli chiedeva di dissociarsi dalle tute nere che avevano già acceso gli scontri: «Noi non ci dissociamo da nulla. A noi interessa solo il G-8. Il resto non ci riguarda».
Quando nasceva Lotta continua, Casarini aveva due anni. Non poteva leggere quel giornale, e si può escludere l’abbia letto in archivio. Son storie troppo diverse, Casarini non è come Agnoletto un epigono del movimento nato dalla critica alla sinistra storica, e i centri sociali non sono la Normale di Pisa. Nei giorni scorsi però le tute bianche hanno dato l’impressione di coltivare, in forme più istintive e meno elaborate, una concezione analoga del movimento, visto come un fiume in piena che tiene dentro tutto, riceve forza d’urto da ogni affluente e cresce anche sull’onda di energie che non gli appartengono, ma che possono essere incanalate verso l’obiettivo. Una concezione sfuggita al controllo di chi pure possedeva solidi strumenti culturali. «Una concezione che c’era prima di Genova, non più ora - sostiene però Gianfranco Bettin, ex militante di Lc, scrittore, prosindaco di Mestre, che venerdì scorso ha tentato di mediare tra centri sociali e Digos -. Genova è stata uno spartiacque. Oggi ho sentito Casarini dire davanti a 5 mila persone che "si deve combattere su due fronti, la repressione poliziesca e le tute nere". Se però le istituzioni non sapranno distinguere, se bruceranno lo spazio di manovra a chi disobbedisce rifiutando la violenza, allora possono tornare gli Anni 70, può tornare il terrorismo».
Anche Gad Lerner era a Genova in questi giorni. E avverte che «l’escalation si innesca di sicuro in qualsiasi movimento, in questo come in quello del ’77 cui tanto somiglia, come l’acqua di una bacinella che sotto i colpi si increspa fino a traboccare. E’ una maledizione che si può evitare dialogando con il movimento, incanalandolo, non certo reprimendolo. L’incursione notturna nella sede del Gsf è stata un errore terribile. Come se nel ’77 la polizia avesse fatto un’incursione nella redazione di Lc in via dei Magazzini generali, per scoprire che nella cronaca romana c’erano tre autonomi; distruggendo così l’organo del dialogo con i giovani ribelli, del partito della trattativa nel sequestro Moro. La demonizzazione di Agnoletto, un medico che ha dedicato la vita alla lotta all’Aids, è un errore tragico. La mia simpatia per lui è totale».
Certo, rispetto agli Anni 70 è cambiato tutto. Ad esempio non ci sono (quasi) più gli operai, e non ci sono (quasi) più i comunisti. Ma non è detto sia un bene visto che, accusa Armando Cossutta, i leader del Gsf sono stati «apprendisti stregoni; hanno evocato la piazza, e non l’hanno saputa governare. Del resto abbiamo avuto qualche problema anche noi, negli Anni 70; ed eravamo il Pci. Ma quando manifestavamo vicino all’ambasciata americana e gli estremisti volevano assalirla, li tenevamo a bada. Certo - sogghigna Cossutta in un moto di orgoglio - nel servizio d’ordine avevamo i portuali di Livorno», mica Agnoletto e i pacifisti della rete Lilliput. «Casarini, ministro degli Interni del Gsf, dovrebbe dimettersi - dice un altro ex Lc presente a Genova, Enrico Deaglio -. Proprio come Scajola, che ha usato un linguaggio inedito e durissimo, definendo manutengoli del terrorismo i suoi interlocutori di ieri. Questo movimento c’è, è forte, è culturalmente molto più avanzato dei Ds, qualsiasi ragazzo di Attac la sa più lunga di Pietro Folena. Ma, in queste condizioni, se una parte può diventare un partito politico, un’altra può evolvere nella violenza». Anche perché adesso ha il suo martire.
«Il primo morto non si dimentica» ha scritto Adriano Sofri il giorno avanti la guerra di Genova. E il sangue chiama altro sangue. La morte di Carlo Giuliani potrebbe rivelarsi per il nuovo movimento «la perdita dell’innocenza», quel che per il ’68 fu, secondo la definizione di Sofri (ma di cui Luigi Manconi rivendica la paternità), piazza Fontana. Ieri, nel sit-in davanti a Palazzo Ducale, le foto di Carlo erano accostate a quelle di Franco Serantini. «Carletto vive» diceva lo striscione portato dai suoi amici (per Serantini fu composta anche una ballata che ne immaginava con ingenua delicatezza la resurrezione: «Da Palermo a Milano, in fabbrica o in quartiere/ovunque noi si lotterà Franco potrem vedere»). Franco Serantini, l’anarchico, il figlio di nessuno, il «sovversivo», come da titolo del libro che Corrado Stajano gli ha dedicato, morì di botte nel carcere di Pisa il 7 maggio 1972. Dieci giorni dopo venne ucciso il commissario Calabresi. Anni dopo, Prima Linea sparò al medico del carcere che non l’aveva salvato.