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Leso bon ton
IDA DOMINIJANNI
C' è la
globalizzazione che piace e c'è quella che dispiace. Piace quella coi lustrini, i soldi
senza frontiere, i summit blindati. Dispiace quella dei movimenti globali, ma anche quella
della stampa straniera che s'impiccia, dei governi europei che chiedono conto, del
presidente del Senegal che constata esterrefatto che nel suo paese certi diritti sono più
sacri che nel nostro.
Ci sono le garanzie irrinunciabili e le garanzie optional. Sono irrinunciabili
quelle a difesa dei potenti, del ceto politico corrotto e degli imprenditori concussi,
sono optional quelle a difesa dell'habeas corpus, del diritto all'assistenza
legale, del divieto di tortura e via violando.
C'è la democrazia da sventolare e c'è la democrazia da calpestare. Si sventola la
democrazia elettorale, quella in cui chi ha vinto governa e fa quello che vuole, chi ha
perso va all'opposizione e sta zitto. Si calpesta non solo la pretesa democratica di
manifestare fuori e contro le istituzioni, ma anche quella di controllare e contrastare il
governo dall'opposizione dentro le istituzioni. Il bipolarismo politically correct
prevede infatti una maggioranza onnipotente e una minoranza compiacente. Se si infrange
questa regola, si trasgredisce il bon ton istituzionale: perché chi è fuori dal
governo oggi è stato dentro ieri o potrebbe esserlo domani, e dunque è bene che moderi i
termini e copra le magagne altrui che potrebbero essere le proprie. Non la pensa così
solo Silvio Berlusconi, quando sostiene l'acuta tesi per cui il centrosinistra, avendo
istruito il G8 e nominato i vertici delle forze armate, è responsabile di quanto è
accaduto a Genova sotto il governo, la direzione e la responsabilità politica del
centrodestra. La pensa un pò così anche larga parte della stampa italiana, nonché il
compagno Napolitano e il compagno Bassolino e chissà quanti altri, tutti contrariati che
il compagno ed ex-premier D'Alema abbia resuscitato parole come "metodi
fascisti" e "rappresaglia cilena", le quali paiono le uniche calzanti a
chiunque si sia fatta un'idea di quanto è accaduto a Genova, ma al bon ton
bipolar-istituzionale non si addicono.
Sempre più spesso, in Italia, sembra perduto non il senso della politica, ma più
banalmente il senso della realtà. Al di là di tutte le intenzioni, le previsioni, gli
auspici e gli scongiuri, il fatto è che Genova si è abbattuta sulla scena rarefatta
della politica italiana con la forza di un evento non rimuovibile e non riducibile. Lo
scriviamo, sia chiaro, senza enfasi, e con il bruciore di svariate ferite. La ferita di un
omicidio. Le ferite di corpi caricati, pestati e maltrattati. Le ferite di biografie
giovani, che cercavano il primo incontro con la sfera pubblica globale e hanno trovato
l'impatto feroce con la faccia repressiva dello stato nazionale. Le ferite dello stato di
diritto, che mai si era rivelato tanto fragile ed estraneo al senso comune politico e
istituzionale di questo paese. Le ferite dell'opinione pubblica, che non si esprime solo
nei sondaggi, e che sarà difficile acquietare con la favola degli aggressori e degli
aggrediti che Berlusconi e i suoi cercano di confezionare contro ogni testimonianza e ogni
evidenza.
Rimuovere questa tragica realtà, che non appartiene solo a noi ma è sotto gli occhi
dell'Europa e del mondo, per ricondurla alla stanca sceneggiatura della soap politica che
va in onda da anni, è un tentativo schizofrenico e vano. Lungi dal contribuirvi - com'è
stata tentata di fare prima che l'evidenza dei fatti e la globalizzazione
dell'informazione glielo impedissero - l'opposizione non ha che da prendere atto che dopo
Genova tutto è cambiato e tutto è in gioco: la legalità dello stato e la legittimità
della politica, il rapporto con l'opinione pubblica e il bon ton istituzionale. La strada
parlamentare è stretta e lo sappiamo. Può però essere percorsa con chiarezza di intenti
e nettezza di parole, e aprirne altre. Oppure con tattiche incerte e contrattazioni
perdenti, e finire in un vicolo cieco, nel quale nessun governo e nessun giornale europeo
ci verrà in soccorso.
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