Manifesto 29 luglio 2001

La bussola dei nostri ragazzi
Genova per tutti. Quando le parole d'ordine sono semplici è più facile che vengano comprese da chi parla linguaggi diversi. L'impegno contro la globalizzazione liberista e i suoi mortali "inconvenienti" rimettono in comunicazione padri e figli, indicano una strada che si può percorrere insieme. E ci aiutano a uscire dal reducismo
LORIS CAMPETTI

Tante volte mi sono chiesto che cosa la mia generazione politica sia stata in grado di trasmettere ai suoi figli. Quali messaggi, quali valori, quali speranze, quali frustrazioni. Me lo sono chiesto, e me lo chiedo, ogni volta che fra "noi" e "loro" non ci si capisce. Qui non c'entrano né la difficoltà di vivere l'adolescenza o di rapportarsi con chi la vive, né i linguaggi diversi: sono cose ovvie, queste, ed è un bene da salvaguardare la diversità di linguaggi, approcci, emotività e pratiche politiche e sociali. Mi riferisco invece, pensando al "loro" modo di vivere (e subire) la politica, alla sensazione che provo quando percepisco che i ventenni non sono felici, non riescono a vivere momenti di gioia. E forse non può esserci gioia se non ci sono passione, protagonismo, il sentirsi soggetto attivo del cambiamento. Il cambiamento di che? Dello stato di cose presenti, si potrebbe dire. Insomma, e forse non vale soltanto per me, ho avuto spesso l'impressione di essere stato in grado di trasmettere a mia figlia soltanto messaggi complicati, perciò confusi. Ai giovani aspiranti giornalisti spieghiamo che, se non sono in grado di scrivere in poche righe un messaggio, un pensiero, una notizia, meglio cambiar mestiere. Ma un giornalista può cambiare mestiere più facilmente di un padre.
Siamo stati bravissimi, soprattutto noi liberi pensatori della sinistra senza padrini e senza padroni, a spaccare il capello in quattro, a buttare merda su tutto ciò che non fosse esattamente come noi avremmo voluto, su chi non ci assomigliasse abbastanza. E insieme, forse, abbiamo trasmesso un senso di amarezza e di sconfitta. Non di passione, non di speranza, non di gioia. Poche volte negli ultimi decenni mi è capitato di vedere padri e madri sessantottine manifestare insieme ai figli e alle figlie. Quando avveniva, spesso, l'atteggiamento dei ragazzi era di chi si trovava lì quasi per dovere, un dovere genetico trasmesso con il dna. Guardavano i partiti della sinistra e sparuti pezzi di società in movimento e sapevano già che fanno schifo: troppo di destra, troppo schematici, troppo o troppo poco, e via sputando di qua e di là. Solo su alcuni fatti grandi e terribili, la guerra o Chernobyl, ci siamo ritrovati per un attimo insieme, con le gambe e con il cuore.
Le manifestazioni dei giorni scorsi a Genova e poi in tutte le città italiane mi hanno aperto gli occhi. Ho visto generazioni che si intrecciavano in piazza, nei dibattiti, nelle chiese. Per parlare di cose semplici: i ricchi e i poveri, il nord e il sud, lo stato di salute del mondo in cui viviamo, la necessità di portare al centro l'uomo e la natura, non più il profitto. I diritti. Il diritto di un bambino a non lavorare, a Napoli come a Bombay. A non essere venduto come schiavo. Il diritto a fuggire dalla morte per fame, malattia o guerra verso altre sponde che non abbiano reticolati, muri e nidi di mitragliatrici. Il diritto a vivere senza fuggire, a lavorare senza morire di lavoro. Parole d'ordine primitive? Non scherziamo: su che si fonda la nostra cultura anticapitalistica, se non sui principi di fondo che distinguono - distinguevano - la destra dalla sinistra? Il fatto è che nel corso della nostra vita siamo diventati così complicati, settari, politicisti, confusi, che ci siamo dimenticati le ragioni di fondo per cui ci battievamo.
Non so se è capitato anche a voi, ventenni o quaranta-cinquantenni che leggete: da un po' di tempo mi sembra che ci capiamo meglio, spontaneamente e non per senso del dovere democratico e politically correct, ci ritroviamo negli stessi luoghi, parliamo delle stesse cose. Si vedeva fisicamente a Genova. Si è sentito nelle parole del padre di Carlo al funerale: sotto quelle maglie sdrucite dei nostri ragazzi, il pantalone bucato, le scarpe rotte, "ci sono cuori pieni, teste che pensano, tanta voglia di fare e un'insaziabile sete di giustizia". Quanti di noi, ragazzi nel '68, sono nati alla politica cantando "Come potete giudicar/ come potete condannar/ chi vi credete che noi siam/ per i capelli che portiam"?
"Le cose che vogliamo - dice Giuliano Giuliani - sono le stesse: un mondo migliore, persino meno schifoso". A quanti di noi i ragazzi di Genova hanno dato "la forza di stare in piedi, di continuare a parlare - sono ancora parole del padre di Carlo - cercare di ragionare... di ritrovare la forza delle idee"? Lo scrive Gian Paolo Ormezzano, raccontando l'avventura del figlio fatto a pezzi e imprigionato ma per fortuna ancora vivo, da cui, dice, sono stato "rifornito di ideali". Ormezzano, un giornalista democratico; Giuliani, un sindacalista della Cgil.
Allora, forse, erano i nostri occhi a non vedere bene in tutti questi anni, a non riuscire a riconoscere le passioni che covavano nel petto dei nostri figli, incapaci di contaminarci, con la pretesa di contaminare. A chi di noi, reduci presuntuosi, è mai venuto in mente di chiedere a loro la bussola, quando non trovavamo più la rotta, o per evitare i marosi ancoravamo la nostra barchetta in un porticciolo sicuro? I tempi della politica non sempre coincidono con i tempi della vita, eppure il sentiero che abbiamo intravisto a Genova dobbiamo provare a percorrerlo insieme. Come dice di padre di Carlo parlando degli obiettivi comuni, "i giovani lo vogliono subito. Ci vuole tempo. I giovani devono allungare un po' il loro percorso ma noi vecchi dobbiamo accorciare i tempi. Mettiamoci d'accordo: se diciamo tra dieci anni, allora lavoriamo già da domani".