La Repubblica 28 luglio 2001 I
celerini
e i giorni
della rabbia
Cresce la voglia di tolleranza zero
di GUIDO RAMPOLDI
ROMA - Quando ascolti funzionari e poliziotti reduci da Genova, la parola che ricorre
più spesso è "guerra". La guerra di Genova. "Peggio di Sarajevo".
"Peggio di Reggio Calabria nel ' 70, dove pure si sparava". "Peggio di
Bologna del '77". "Come solo ai tempi di Tambroni". "E noi, sbigottiti
al cospetto di quella massa immensa, 20 volte quanti erano a Goteborg, le assicuro".
"E noi, al fronte con le scarpe di cartone. Con vecchi blindati usciti di produzione
vent'anni fa. Con camionette vulnerabilissime, quelle che i kosovari chiamano 'Coca-cola'
perché sembrano di latta, non di lamiera".
COME un esercito tornato da una battaglia campale di cui non ha compreso l'esito, ancora
ammaccati nello spirito e nella carne ora si chiedono se fu vittoria o disfatta. Gli uni
orgogliosi per "aver retto" nelle circostanze più avverse, gli altri umiliati
dal disonore che sentono addosso per le testimonianze di violenze canagliesche. E tutti
amareggiati da quel grido, "Assassini!", che da allora li rincorre, e che non si
spegnerà facilmente. Ma una cosa è chiara anche ai poliziotti: lo choc è stato così
forte che dopo quindici anni di "emergenze" nelle quali pareva inopportuno porsi
la domanda, il Paese ora si chiede che cosa sia la polizia italiana, e che cosa debba
essere. Se c'è un reparto che racconta la parabola della gestione dell'ordine pubblico,
quello è la Celere di Roma, oggi chiamata Primo reparto mobile. Trentatrè anni fa gli
agenti usciti da quella caserma si scontrarono a Valle Giulia con gli universitari, e fu
l'inizio del Sessantotto. Pasolini scrisse una poesia famosa ("Quando ieri a Valle
Giulia avete fatto a botte coi poliziotti/ io simpatizzavo coi poliziotti/ perché i
poliziotti sono figli dei poveri"), che oggi non avrebbe più senso, perché i nuovi
"celerini" per tipologia sociale somigliano semmai agli universitari di Valle
Giulia. Ritrovo nella loro caserma l'ispettore Frati, 32 anni, due lauree e cinque lingue,
che in Kosovo, quando dirigeva la polizia Onu dell'aereoporto, mi tenne una lezione
appassionata sugli effetti taumaturgici dello stato di diritto: le Nazioni Unite l'hanno
appena prescelto per un incarico in Africa da 26 milioni al mese. I suoi colleghi
rappresentano un ceto medio in genere istruito e professionalizzato, hanno un reparto
informatico che gestisce la caserma, le bacheche con gli annunci di vari sindacati, i
poster dei cantanti rock negli uffici, e un nucleo sperimentale, il settimo, che
rappresenta l'elite dell'anti-sommossa. Raccontano i trentenni del settimo che s'erano
preparati da maggio per Genova. Tre ore di allenamento fisico al giorno e soprattutto
molto addestramento psicologico, per abituarsi a mantenere unità e nervi saldi, in quanto
"un ciccione con cervello è un agente migliore che una massa di muscoli senza".
Il primo giorno del G8 si sono trovati "in settanta davanti a duemila black-bloc che
rientravano nel corteo come fosse il loro grembo". Hanno preso pietrate, molotov
"e una paura dannata". Non hanno pestato alcuno, giurano, e anzi lamentano che
le tv non li abbiano ripresi mentre soccorrevano dimostranti mezzi asfissiati dai
lacrimogeni. Ma la sera del secondo giorno, dopo aver "girato a vuoto" per ore,
il settimo nucleo venne usato come forza d'urto per entrare nella scuola Armando Diaz. Fu
così che questi agenti, fino a ieri accolti negli stadi dalle tifoserie neonazi al grido
di "guardie rosse!", ora sono, per il quotidiano di Rifondazione, i
"cileni" che hanno sospeso la democrazia. Dunque, cosa accadde quella sera? La
pioggia di sbarre e sassi. L'ingresso. Buio pesto, così buio "che non riuscivi a
distinguere un uomo da una donna". La bastonata che si abbatte sulla schiena di uno.
E un altro, quello ora appoggiato alle stampelle per i postumi di una sassata, che sfonda
una porta e riceve una coltellata sul giubbotto anti-proiettile. E poi? "Non eravamo
certo gli unici poliziotti, là dentro: noi siamo usciti quasi subito". Ma allora
cosa accadde in quella scuola da cui, quaranta minuti dopo, quasi nessuno degli occupanti
è uscito integro? Chi ha voluto ripristinare per una notte l'immagine tramandata dalla
canzone-simbolo del Sessantotto, "e quando è arrivata la polizia, di sangue ha
imbrattato il cortile e le porte"? Ricevo in risposta altre domande. Un agente:
"Perché a prenderle dovrebbero essere sempre i poliziotti?". Il comandante del
reparto, Vincenzo Canterini: "Può credere che i miei uomini siano colpevoli d'un
pestaggio? Che siano il dottor Jekyll?". Eppure è evidente che a Genova c'erano
anche i mr Hide in divisa, quelli che hanno brutalizzato inermi. Ed è altrettanto
evidente che per spirito di corpo o di corporazione, finora la polizia, come il governo,
ha coperto i "colleghi che sbagliano". Col risultato di autorizzare la domanda
se siano pochi o tanti: l'eccezione o la nuova tendenza. ****** ****** Studiando i 104mila
poliziotti italiani su richiesta dal Viminale, Umberto Margiotta, cattedratico a Venezia,
ha scoperto che per cultura sono paragonabili ai lettori dell'Espresso o di Panorama, un
livello superiore alla media italiana. Sono ormai archeologia i contadini con licenza
elementare che trent'anni fa cercavano in polizia un minimo di sicurezza e di status, e di
questo si accontentavano. Accelerata dall'ingresso di 14mila donne, la mutazione
antropologica ha giovato enormemente al corpo. Ma si può aggiungere che quel ceto medio
in divisa ha aspettative assai più alte dal passato, e una maggiore permeabilità ai
messaggi esterni. Le aspettative sono spesso frustrate da uno sviluppo delle carriere
così burocratico da ignorare il merito. "Una delle questioni cruciali è che la
polizia non è ancora riuscita a dotarsi di un sistema efficiente di premi e di
punizioni", dice Margiotta. Perché? Per le resistenze di quelle strutture interne
che temono di perdere potere. Poiché la promozione è la via principale, se non l'unica,
per ottenere un aumento di stipendio, il rapporto tra truppa e capi oggi è un bizzarro 60
a 40: quasi un capo ogni agente. Se a questo si aggiungono le frizioni con i prefetti,
l'irrisolta rivalità con i carabinieri, lo scoordinamento con le altre otto polizie,
dalla forestale ai vigili urbani, non si fa fatica a credere a quanto lamentano tanti
funzionari: come in altre pubbliche amministrazioni, il ministero degli Interni è
prigioniero di quel sistema italico che produce potere senza responsabilità,
responsabilità senza potere. Un po' di tutto questo, aggiungono alcuni, si è visto anche
a Genova. Ma rispetto ai fatti di Genova la questione immediata è se quell'inefficace
sistema di punizioni abbia prodotto nella polizia una certa tolleranza alla violenza
gratuita. Dopotutto non è raro leggere nelle cronache di cittadini malmenati, storie che
in genere hanno risonanza perché a denunciarli è una persona nota al grande pubblico.
Non è probabile che quegli episodi siano solo la parte visibile di un iceberg alla cui
base troveremmo tanti altri maltrattamenti che non "non fanno notizia" perché
la vittima non sta nella luce dei riflettori?. La poliziottologia di Margiotta dovrebbe
rassicurarci. "Quattro anni fa il Viminale ha ripulito interi servizi, avviato una
politica di moralizzazione e istituito una diagnostica delle situazioni a rischio. Posso
garantire, perché ne sono stato testimone, che il cambiamento è stato
impressionante". A provocarlo fu la scoperta che due poliziotti, i fratelli Salvi,
erano i serial-killer della cosiddetta banda della Uno bianca: un ambiente sano li avrebbe
isolati per tempo. I due investigatori che scoprirono la doppia vita dei Salvi non hanno
fatto carriera nel corpo. Ma dopo il gran repulisti, garantisce Margiotta, i poliziotti
violenti sono presenze marginali, "al massimo nicchie". Alcuni funzionari,
ovviamente anonimi, sono meno rassicuranti. Abituati ai servizi d'ordine pubblico in quei
territori extra legem che sono gli stadi, essi hanno visto progressivamente sbiadire il
confine tra la legalità e l'illegalità di massa: "Respiri una violenza che può
infettarti facilmente". Altri, inclusi poliziotti "di sinistra", scorgono
l'incentivo alla mano forte nell'inefficacia della pena. "Arresti uno e tre giorni
dopo quello ti telefona per annunciarti che è libero, che si vendicherà. Allora ti
chiedi perché proprio tu dovresti essere l'unico fesso a rispettare sempre e comunque la
legge. Così può accadere che calchi la mano. E quando avviene, ti aspetti che il corpo
ti protegga, perché così in genere avviene". Violenza "di nicchia" oppure
"di tendenza", magari cavalcata a Genova anche da alti dirigenti? E quanto ha
inciso, in quelle "nicchie" più o meno grandi e certo bendisposte verso
messaggi muscolari, una campagna elettorale giocata dal nuovo governo sullo slogan della
"tolleranza-zero" e sulla solidarietà con la polizia, sempre e comunque?
Ti raccontano i più onesti che i fatti di Genova dividono i poliziotti tra
sbigottiti e contenti. Per i primi parla l'ispettore genovese Roberto Traverso: "Chi
ha sbagliato deve pagare: certi episodi ci stanno riportando indietro di anni nel rapporto
con la gente". Anche il vice-questore Giovanni Aliquò, durante il G8 in servizio
nella bolgia di via Tolemaide, dice che i colpevoli devono essere puniti, "se i fatti
saranno accertati". Ma aggiunge che sta cominciando la "rivoluzione
copernicana": "Fino a ieri imperava il concetto buonista della sinistra, per la
quale il poliziotto è candidato a prenderle e può reagire solo pro-forma. Ora non più.
Siamo stufi di beccare sputi e pietrate negli stadi e in piazza. La polizia dev'essere
autorizzata a difendersi dai quattro imbecilli che cercano ad ogni costo lo scontro. E poi
sa che le dico? Meglio un processo che un funerale". Aliquò è il segretario di un
sindacato che si accredita l'80% dei funzionari sindacalizzati, e ritiene che le sue tesi
siano largamente condivise. E' cominciata durante la presunta "guerra di Genova"
una rivoluzione copernicana finora avallata dal governo? "In forma sublimata",
risponde Aliquò. In quel caso non tanto sublimata, a giudicare da certi episodi di
"tolleranza zero" e violenza tanta. Allora converrà dimostrare coi fatti a
neofiti ed entusiasti che la "tolleranza zero", come insegna l'esperienza
americana, da sola non funziona o è controproducente, perché incita all'arbitrio
poliziesco. Funzionano invece ricette integrate, calibrate sulle situazioni singole. Ciò
che queste ricette hanno tutte in comune è lo sforzo per rendere la polizia più
efficiente, corretta e credibile. In altre parole, la "tolleranza zero"
dev'essere applicata in primo luogo ai poliziotti. |