Corriere della sera 1 agosto 2001
«Io, il ferito di Göteborg, sono una tuta nera»

Parla Hannes Westberg, colpito negli scontri al vertice europeo. «Non uso il passamontagna, combatto a viso scoperto»

DAL NOSTRO INVIATO
GÖTEBORG (Svezia) - Sopra i settanta punti di sutura che gli cuciono il torace quasi completamente, sopra il buco ancora visibile della pallottola calibro 9, sparata da un poliziotto durante i tumulti di giugno, Hannes Westberg, 19 anni, indossa una maglietta blu con la scritta: «Riot!», «Insorgi!».
È uscito dal coma due settimane fa. «Ho la pelle dura», dice. Conosce bene i Black bloc, gli anarchici duri che hanno messo a ferro e fuoco prima Göteborg, poi Genova. Ammette di far parte del gruppo. Con un’unica differenza: «Io non porto la Black mask , il passamontagna nero. Preferisco combattere col viso scoperto. Non m’importa se poi mi riprendono le macchine fotografiche dei fascisti e dei poliziotti. Anche il 15 giugno, il giorno della manifestazione contro il vertice Ue, non avevo nessuna protezione, ho visto benissimo quell’agente con la mascherina sul viso puntarmi l’arma e poi fare fuoco. È un film che non dimenticherò mai, naturalmente».
Già, il film: quelle immagini di un pomeriggio di battaglia a Göteborg che sono arrivate in tutto il mondo. Lui che lancia una pietra, poi fa per voltarsi ma ci sono là, in piazza Vasa, cinque poliziotti rimasti soli di fronte ai dimostranti. Forse hanno paura. Uno di loro gli spara da pochi metri. Hannes non sa dire dove siano finiti adesso i suoi amici del Black bloc. Dal giorno in cui è entrato in ospedale li ha persi di vista.
Ormai lo davano tutti per spacciato: il primo morto del popolo di Seattle, dicevano. La Genova di Carlo Giuliani doveva ancora arrivare. Gli hanno tolto un rene, mezzo fegato e la milza. Ma è vivo. «Sono stato fortunato - ammette - non sono morto per una questione di millimetri, il proiettile ha soltanto sfiorato il cuore. Un medico che passava là vicino con una mano ha subito cercato di fermare il sangue che fiottava, premendo le dita contro la mia aorta. Sì, adesso sono felice».
Felice?
«Certamente, ma anche molto arrabbiato. Quel poliziotto poteva sparare in aria, poteva spararmi alle gambe, invece mi ha sparato in petto. Pazzesco».
In quel momento lei stava tirando pietre e un poliziotto era steso a terra, senza casco .
«La polizia ci ha provocato dall’inizio, c’erano anche dei nazisti infiltrati, volevano gli scontri, per strumentalizzarli poi politicamente. Ma vi prego, c’è il processo vicino, devo stare buono, tranquillo, non posso dire di più, così mi ha consigliato di fare il mio avvocato Anders Munck».
È un ragazzo alto, biondo, gli occhi celesti. Molto magro. «Sono vegetariano - spiega - niente carne, solo latte e uova. Ma adesso devo mangiare, mi devo riprendere, devo tornare come prima». Accanto a lui, sul divano, nella villetta di Anngaerden, periferia tranquilla e verdissima di Göteborg, la fidanzata Camila, 22 anni, colombiana. « A very nice couple », davvero una bella coppia, sospira la mamma di Hannes, Ann-Mari, fisioterapista. Dorme accucciata la cagnetta Giulia.
Hannes, avrà saputo di Carlo Giuliani: il ragazzo italiano, di 4 anni più grande di lei, ucciso a Genova con un colpo di pistola sparato da un carabiniere mentre lanciava un estintore contro una camionetta. Le vostre storie sembrano simili .
«La sua morte mi ha toccato moltissimo. Poteva succedere a me, a chiunque altro. Per questo dico che sono stato fortunato. Carlo no, non ha avuto questa fortuna, purtroppo. Spero almeno che quanto è accaduto possa servire d’ispirazione, d’insegnamento, a tutto il popolo pacifista. La democrazia nel mondo sarà difesa sempre da gente coraggiosa come Giuliani. Ora è tempo che i politici passino dalle parole ai fatti, che dimostrino di voler sostenere le nostre battaglie».
Ma in che modo? E perché dovrebbero sostenervi?
«Intanto io mi auguro che venga fatta un’inchiesta vera sugli scontri di Göteborg, non un’indagine di parte, però, come sembra intenzionato a fare il nostro governo. Io chiedo che a occuparsene sia un organo indipendente e internazionale. È assurdo quello che è successo qui da noi a giugno: paghiamo la polizia perché protegga i nostri diritti. Non per farci sparare addosso».
Il poliziotto che le sparò è finito sotto inchiesta: lei come lo ricorda?
«Non si trattava di un ragazzino, di questo sono sicuro. Era un adulto, l’ho visto di fronte a me con la pistola in pugno. Ricordo quei momenti come fosse oggi. Ma quando sento parlare di legittima difesa da parte dei poliziotti, mi vengono i brividi. Sono stati loro a cominciare. Loro tiravano i sassi, abbiamo risposto».
Il Black bloc è un gruppo violento: lo dicono le fotografie e i filmati tv girati a Göteborg e a Genova, lo dice la polizia.
«Quella della polizia è violenza, non quella del Black bloc. In Svezia le Tute nere, come le chiamate, difendono i più deboli, i curdi, i cileni, gli iraniani dagli assalti periodici delle bande neonaziste».
In Svezia, in Italia, tanti ragazzi sono finiti in prigione .
«Sì, ci penso spesso. Penso a loro, penso a Carlo Giuliani che non c’è più. E voglio dir loro che ora sono dove sono, in prigione o al camposanto, perché si sono sacrificati per noi. E ora noi dobbiamo continuare a combattere per loro ... La lotta deve continuare. Finché c’è un mondo così pieno di disuguaglianze, tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri, tra uomini e donne, finché i diritti non saranno di tutti, è giusto continuare a lottare».
Nel mondo che lei sogna c’è quindi posto per la vostra violenza?
«Io sogno un mondo giusto».
E davvero crede che la violenza sia uno strumento indispensabile per realizzare questo sogno?
Hannes non risponde. Ripete soltanto che il suo processo è alle porte. Il giudizio si celebrerà in settembre, molto probabilmente. L’avvocato Munck dice che la pena massima che può rischiare il suo cliente è quattro anni di carcere, ma sembra comunque ottimista.
Il ragazzo, dopo quasi due ore di parole, a tratti chiude gli occhi come per concentrarsi, per non farsi vincere dalla stanchezza. «Vede le bolle che ho in faccia? È l’allergia causata dalle molte medicine che ho preso. Ora basta con le medicine. Mangiare e camminare: è questa l’unica ricetta».
Camila sorride, lo abbraccia forte, gli accarezza i capelli. Suona il campanello. È Lisa, la sorella più grande, 29 anni, che vive a New York. È tornata in Svezia quando ha saputo della tragedia. In America lavora in una organizzazione ecologista, The Cherry Tree , il ciliegio. Ecologista lei, ecologista convinta anche mamma Ann-Mari, che mostra orgogliosa il suo giardinetto pieno di fiori davanti a casa. Antinuclearista storico, infine, il padre Gunnar.
«Hannes è un militante da quando aveva 12 anni - raccontano i suoi amici del collettivo Kallebacks, dove sabato scorso lui ha trascorso la serata uscendo di casa per la prima volta dal ferimento -. Un militante vero, nato per far politica». «Ma - corregge lui, ex studente al liceo Schiller ora impiegato in una ditta di trasporti - non per fare il politico»
Fabrizio Caccia