Corriere della sera 25 luglio 2001
Il racconto di Massimiliano Amodio, 31 anni, napoletano. «Gli agenti ci hanno portati via dal centro di accoglienza senza dirci niente. E’ stato un incubo»

«Sono malato, quasi non cammino: mi hanno preso e tenuto in cella per due giorni»

«Siamo arrivati in una caserma e ci hanno messo in uno stanzone vuoto»

NAPOLI - Massimiliano Amodio è uno dei ragazzi dei centri sociali di Napoli. Ha 31 anni, è piccolo di statura e ha una malattia degenerativa alle gambe che, se non gli impedisce di camminare, sicuramente glielo rende molto difficoltoso. Era a Genova, la scorsa settimana. E ci è rimasto più di quanto avrebbe voluto perché lo hanno arrestato. Non durante le manifestazioni, perché lui al corteo nemmeno c’è andato, non se la sentiva, viste le premesse e le sue condizioni fisiche. Lo hanno portato via sabato mattina dal campo «Re di Puglia», uno dei centri dove i no-global hanno dormito durante i giorni del G8. Insieme con altri venti, Massimiliano si è trovato a passare una quindicina di ore in una camera di sicurezza e un giorno nel carcere di Alessandria. Alla fine il magistrato lo ha scarcerato senza nessuna accusa. Questa è la sua testimonianza, raccolta ieri durante la manifestazione svoltasi a Napoli, alla quale ha partecipato anche lui, rientrato da poche ore da Genova. «Quando sono arrivati gli agenti, sembravano tranquilli. Noi eravamo pochi, e devo dire che loro si sono comportati correttamente. Hanno chiesto i documenti, poi hanno deciso di fermare un primo gruppo di una decina di persone. In quel gruppo io non c’ero, pensavo che a me non sarebbe toccato. Ma non avevo niente da nascondere, sono rimasto lì. E, dopo qualche minuto, quelli sono tornati e mi hanno portato via, insieme con altri ragazzi.
«Siamo arrivati in una caserma, o qualcosa del genere, non so cosa fosse. Una palazzina bassa verso l’autostrada. E lì è cominciato un incubo. C’erano poliziotti, carabinieri e guardie carcerarie. Ci hanno fatto attraversare un lungo corridoio ordinandoci di tenere la testa bassa e poi ci hanno messi tutti in una stanzone vuoto. Tutti in piedi rivolti verso il muro, con le mani appoggiate alla parete e l’ordine di non voltarci e di non parlare.
«Non ci dicevano che ci avevano arrestato, non ci dicevano perché. Non ci dicevano niente. Soltanto insulti. C’erano nove ragazze, tra noi, e a loro hanno detto di tutto. Poi ci sfottevano. Io sono basso, mi chiamavano Lucio Dalla. Ma a me è andata bene. Altri hanno preso schiaffi. Un siriano con una protesi alla gamba destra è crollato a terra, e lo hanno riempito di calci ordinandogli di alzarsi. Poi lui ha fatto vedere in che condizioni era e un agente si è impietosito e ha lasciato che rimanesse seduto. Ma, quando quello si è allontanato e sono arrivati altri, quel poveretto ha dovuto alzarsi di nuovo.
«È andata avanti così per tutto il giorno e tutta la notte. Siamo arrivati in quella caserma verso l’una del pomeriggio e ci siamo rimasti fino a domenica mattina. Senza mangiare. Con tre bottigliette d’acqua che potevamo fare al massimo un sorso ciascuno, e sigarette nemmeno a parlarne. Sempre costretti a stare in piedi e faccia al muro. Le guardie si davano il cambio e ogni tanto qualcuno lasciava che ci sedessimo. Ma poi dovevamo rimetterci in piedi e comunque non abbiamo mai potuto stenderci per provare a dormire. «Io ero uno dei più grandi, lì dentro. C’erano giovanissimi terrorizzati. E comunque faceva paura anche a me, perché c’erano macchie sul muro che sembravano di sangue e non sapevo che cosa ci sarebbe successo. A un certo punto uno di loro ha spruzzato nella stanza un gas lacrimogeno e a una ragazza è uscito il sangue da un occhio, tanto era irritante. Ho cominciato a sperare che ci portassero in carcere, qualunque cosa pur di uscire da lì dentro. Domenica mattina, finalmente, ci hanno separati, uomini da una parte, donne da un’altra. È cominciata la procedura di arresto e per tutti è stata una liberazione. Quando siamo arrivati al carcere di Alessandria, mi sembrava di stare in Paradiso. Abbiamo mangiato, fatto la doccia, avuto dei vestiti puliti e sigarette. E le guardie non ci insultavano più».
Fulvio Bufi