La Repubblica 3 agosto 2001

La nuova società dei diseguali
di GIORGIO RUFFOLO


CI SERVE una nuova ideologia disegualitaria. Nel mondo antico l'ineguaglianza era un fatto della vita. La povertà, anche se lodata da qualche filosofo, era aborrita dalla gente comune e per niente stimata. "Beati i poveri, non rientrava affatto nel mondo ideologico greco-romano; i molto poveri, nel mondo antico, destavano poca simpatia e nessuna pietà", dice Moses Finley. (L'economia degli antichi e dei moderni, Laterza, 1974).
La ricchezza, invece, era molto ammirata. Nessuno si sognava di dire che fosse un peccato. D'altronde, al mondo antico mancava proprio il senso del peccato.

E fu proprio questo che il cristianesimo inculcò nella società, al tramonto, di quel mondo ingiusto. Non è che abbia concretamente ridotto di molto l'ingiustizia: ma la dichiarò transitoria. Così, continuarono ad esserci poveri e ricchi (in un mondo impoverito). Ma ai poveri si diede una speranza.
E ai ricchi un tormentone: quello di non riuscire, nel momento fatale, a passare per la cruna di un ago! (Di qui lasciti agli eredi per preghiere e donativi generosi alla Chiesa).
A liberare i ricchi da quel tormentone ci pensarono, molto tempo dopo, Lutero e soprattutto Calvino. La ricchezza era la prova della grazia; e la grazia, come dice la parola stessa, è gratuita. Non servono né indulgenze, né elemosine. Né, soprattutto, donativi alla Chiesa.
Il mondo, intanto, grazie ai mercanti, quelli che la Scolastica diceva che non potevano piacere a Dio, si era molto arricchito, a Dio piacendo. Ed era pronto ormai ad accogliere una concezione del mondo che non ignorava l'ingiustizia, non la condannava ma, anzi, la legittimava. Insomma, era pronto per il capitalismo.
Così si giunse, dopo le successive ideologie dell'ingiustizia, al mondo moderno: quello della ragione, dei lumi, e della democrazia. E il tema dell'ingiustizia diventò il tema centrale di quello che è ancora, dopo tutto, il nostro mondo; e che costituisce il criterio cruciale della distinzione tra la Destra e la Sinistra.
Ma la Destra non affidava più, diciamo, le ragioni dell'ingiustizia nelle mani di Dio e della sua grazia; ma al più modesto e però verificabile meccanismo anonimo del mercato: cioè, al dunque, al gioco libero dei rapporti di forza economici. La Sinistra, anch'essa, non affidava più la speranza della giustizia nelle mani di Dio, ma in quelle della democrazia. Mercato e Democrazia erano diventati, insomma, i Duellanti della nuova storia.
Lasciamo stare i protagonisti estremi di quel duello: quelli che in nome della democrazia erano disposti a sacrificare il mercato; e quelli che in nome del mercato erano disposti a sacrificare la democrazia. Ne hanno combinate di tutti i colori: in verità, poi, due soli, il rosso e il nero.
Dopo un secolo, breve ma tremendo, si è dovuto constatare che né la democrazia poteva fare a meno del mercato, né viceversa; e che quindi, quel tormentoso problema della ingiustizia, bisognava risolverlo con un compromesso. Questo parve finalmente raggiunto, alla fine di un ennesimo e più orrido macello: il cosiddetto «compromesso socialdemocratico» (per essere più corretti dovremmo dire liberalsocialista) ma il cosiddetto secolo socialdemocratico aperto da quel compromesso è durato sì e no venticinque anni: dal 1950 al 1975 o giù di lì.
Il fatto nuovo di questi ultimi decenni è che quel compromesso è saltato. Mobilità dei capitali e accelerazione dei processi produttivi (i due processi sintetizzati con il termine un po' enfatico e fuorviante di globalizzazione) hanno liberato grandi nuove forze produttive che si muovono guidate dalla prospettiva immediata di profitto e svincolate dal controllo degli Stati nazionali.
Ciò ha creato formidabili occasioni di sviluppo e di arricchimento in certe zone, settori e gruppi sociali, ma ha anche alterato l'equilibrio raggiunto tra Mercato e Democrazia. E ha rovesciato la tendenza che il compromesso socialdemocratico aveva promosso, alla convergenza tra crescita e riduzione delle diseguaglianze tra paesi e gruppi sociali. Queste ultime sono ingigantite. Tutti lo riconoscono: solo che alcuni dicono che non conta: che importa che la maratona si sgrani se nell'insieme va avanti? Che importano le ineguaglianze relative se nell'insieme il mondo di oggi vive in modo incomparabilmente più agiato del mondo di ieri? E invece conta, eccome. Primo perché nell'insieme non vuol dire quasi niente: lo sapeva anche Trilussa.
Secondo, perché andare avanti non ha senso se nessuno sa dove si va; se alla crescita dei beni si accompagna la crescita dei mali e i primi sono conteggiati in moneta e gli altri solo subiti e sofferti. Terzo perché, da che mondo è mondo, il benessere si misura in termini relativi: ai contadini francesi del ‘700 non sarebbe importato un fico sapere che vivevano incomparabilmente meglio dei servi della gleba.
Insomma, se la tendenza reinstauratasi da un trentennio, all'aumento delle diseguaglianze, dovesse confermarsi, l'umanità del XXI secolo dovrebbe prepararsi a sperimentare vere e proprie fratture sociali (le incrinature, del resto, già si vedono). E allora, nell'assenza di un nuovo compromesso - che stavolta però dovrebbe essere realizzato a livello davvero globale, con qualche sorta di governo mondiale, altro che G8! - potrebbero succedere due cose: una esplosione di egualitarismo fanatico o il trionfo di un disegualitarismo autoritario.
In quest'ultimo caso, perché l'ingiustizia finalmente trionfi, occorrerà una qualche nuova ideologia della diseguaglianza che accetti l'ingiustizia come un fatto della vita e metta il cuore in pace ai poveri e ai ricchi: come nel buon tempo antico.