La Stampa
Arnaldo, il duro della «squadra mobile»
Mercoledì 1 Agosto 2001

IL VICE CAPO DELLA POLIZIA RISCHIA DI ESSERE UNO DEI POCHI COLPEVOLI DELLA «MATTANZA» DI QUELLA NOTTE DURANTE IL G8
Il giorno più lungo di La Barbera, da Palermo alla scuola Diaz

ROMA
UN momento così difficile forse non lo ha mai attraversato, neppure quando fu catapultato a Palermo nel pieno della depressione collettiva del dopo stragi. Le avversità non lo hanno mai demoralizzato, ma devono essere stati giorni duri, questi. Con l’opinione pubblica, i capi, il ministro, il governo che gli tengono gli occhi addosso, e il rischio di passare per uno dei pochi "colpevoli" della mattanza genovese. L’inchiesta ministeriale sembra non risparmiargli critiche. D'altra parte lui ha avuto quasi sempre il compito ingrato di «metter mano nelle cose difficili». Arnaldo La Barbera anche in questa occasione se ne è stato muto, ha risposto alle richieste di chiarimenti e adesso aspetta le decisioni dall’alto.
Il vice capo della polizia e capo dell’Ucigos, l’ufficio antiterrorismo, è di poche parole, fino ad apparire scontroso e distante. Basta, però, un po’ di frequentazione per rimuovere diffidenze e pregiudizi. Si tratta di intuire cosa si muova sotto quella scorza dura di poliziotto all’antica, di «sbirro da marciapiede». Nel suo ambiente non tutti lo amano. Quelli che hanno lavorato a stretto contatto con l’"Arnaldo" giurano: «Bisogna conoscerlo, può sembrare persino cattivo per certe pretese che accampa, per l’eccessiva esigenza professionale. Ma è un generoso che dagli altri pretende almeno quanto dà. E sul lavoro, lui dà moltissimo».
Certo, la fama di «duro» non è frutto dell’immaginario collettivo e basta. La strada gli ha sempre consigliato, come dire, una certa abitudine alla difesa stretta. E lui stesso, zompando da un incarico "delicato" all’altro, non ha mai fatto mistero di quanto l’essere poliziotto possa allontanare dai normali rapporti sociali. Persino coi cronisti, La Barbera, ha intrattenuto rapporti non semplici: ad una intervista preferirebbe una notte trascorsa in bianco, all’umido, a pedinare un malfattore.
Così lo descrivono quelli che lo conobbero quando dirigeva la squadra mobile di Venezia. Era l’inizio dei favolosi Anni Ottanta e già Felice Maniero imperversava e si accingeva a smettere gli abiti di bandito romantico per indossare quelli di "mafioso del Brenta" offertigli dal clan dei siciliani insediati in Veneto. L’"Arnaldo" non dava tregua alla "Primula" del Nord-Est. La battaglia fu lunga e incerta: si interruppe quando Parisi, allora capo della Polizia, lo inviò a Palermo sulla scia del terremoto istituzionale seguito alla tragica estate del 1985 quando vennero assassinati i commissari Cassarà e Montana e quando la squadra mobile deflagrò sotto i colpi della terribile morte di un fermato, Salvatore Marino, ucciso da un interrogatorio troppo violento.
La Barbera arrivò a Palermo, si fermò per qualche settimana ma poi tornò a Venezia. L’appuntamento era solo rinviato: da Roma arrivò l’ordine di andarsi a sedere sulla scomoda poltrona che era stata di Boris Giuliano. Una prova non facile, per il nuovo dirigente che, da un lato, deve rianimare la lotta alla mafia in fase di stallo per la mattanza precedente e, dall’altro, ricostruire una squadra mobile distrutta dalla vicenda Marino e dal conseguente «repulisti» che l’allora ministro Scalfaro portò avanti con grande determinazione.
Palermo conobbe il "metodo La Barbera". Stava sedici ore in ufficio e aveva rifiutato l’idea di una casa vera, asserragliandosi a due passi dalla questura, in un albergo non particolarmente confortevole. Gli stessi ritmi chiedeva ai collaboratori, giovani che andavano formando una squadra. Tutto con l’assistenza romana del "gruppo De Gennaro, Manganelli, Pansa".
Il destino penserà a rafforzare la fama di "duro", nata anche da certi approcci disinvolti con delinquenti che in passato non avevano ben conoscuto la risolutezza poliziesca. Accadde un pomeriggio in un fitness center. Entrarono due rapinatori armati ed affrontarono il proprietario, il quale - per dissuaderli - li avvertì che in una sala c’era il capo della squadra mobile. Quelli, per nulla intimiditi, risposero: «Bene, cominciamo da lui». Calcolo sbagliato, perché La Barbera non si fece trovare impreparato. Era armato anche lui e sparò cinque colpi uccidendo uno dei banditi. L’altro lo affrontò con la pistola scarica e riuscì a tramortirlo colpendolo col calcio dell’arma. Nessuno ha mai sentito dalla sua bocca il racconto di quel pomeriggio. Solo qualche mugugno imbarazzato e il «no» alla proposta di accettare una scorta armata.
Già, la scorta. La rifiuterà anche dopo alcune operazioni niente male come la cattura del superkiller Peppuccio Lucchese e la scoperta del racket delle estorsioni gestito dal boss Nino Madonia. Dovrà subirla quando in Sicilia irromperà lo stragismo mafioso. Muoiono Falcone e Borsellino e a La Barbera viene affidato (per decisione di De Gennaro) il comando di un gruppo di investigatori - tra i primi quel Francesco Gratteri di cui anche si parla per la perquisizione alla scuola Diaz di Genova - che «dovrà occuparsi di scoprire gli assassini dei giudici palermitani». La Barbera appare la persona giusta per quell’incarico: l’attacco mafioso contro lo Stato ha raggiunto punte mai sfiorate, c’è la necessità di una risposta di poliziotti generosi, disposti a prendere il fuoco con le mani, senza timori di rimanere scottati. E lui è di quelli che non si è mai tirato indietro. Gira, aggancia delinquenti e li convince a collaborare, non si risparmia e non tollera tentennamenti.
Il "Gruppo Falcone-Borsellino", così viene chiamata la squadra, mette insieme risultati non indifferenti. Certo, oggi nei vari gradi dei processi quei risultati vengono criticati e guardati con la lente dell’entomologo. Ma nove anni fa, quando lo Stato sembrava affondare sotto i colpi di Cosa Nostra, fu provvidenziale - per ammissione univoca - la generosità della squadra e la determinazione dei magistrati della Procura di Caltanissetta. L’"Arnaldo" è tornato a Palermo, da questore, poi è stato chiamato nella Napoli che ogni giorno raccontava la mattanza dei vicoli e le atrocità dei baby-killer. Sempre a coprire le emergenze. Infine ai vertici della polizia. E a Genova.