Manifesto 27 luglio 2001 Le
frontiere invalicabili del controllo sociale
In un volume edito da "Ombre Corte",
la genealogia di uno tra i più tangibili dispositivi del potere
ALESSANDRO DE GIORGI
Il riemergere negli ultimi anni di descrizioni
"forti" della società contemporanea e delle sue trasformazioni sembra aver
nutrito una rinascita di interesse verso le nuove geografie degli apparati di controllo
che a queste trasformazioni si accompagnano. Ne è derivato un fermento analitico che ci
ha restituito descrizioni complessive della società (neoliberalismo, Risikogesellschaft,
società dell'incertezza) e allo stesso tempo nuovi paradigmi capaci di dare una
materialità a quelle stesse descrizioni (postfordismo, globalizzazione, Impero). Salti di
paradigma, passaggi di fase e transizioni epocali che hanno travolto spazi, tempi e
pratiche tradizionali del controllo sociale: dove il controllo era materiale subentra
l'immaterialità della sorveglianza, dove la società disciplinare imponeva territori
perimetrati si estendono ora spazi lisci, ai luoghi della produzione e della punizione si
sostituiscono i non-luoghi dei flussi produttivi e del contenimento a distanza delle
popolazioni a rischio.
Nel suo Storia politica del filo spinato (Ombre Corte, pp. 94, L. . 15.000) Olivier
Razac sembra cercare un superamento di questa apparente "infatuazione" verso
tutto ciò che è immaterialità, flusso, intangibilità e assenza, proponendoci la storia
di una fra le espressioni più materiali, concrete, tangibili e ruvide del potere sui
viventi: il filo spinato.
Più che di una storia si tratta di una vera e propria genealogia di questo dispositivo di
potere. Razac non intende infatti fornire una ricostruzione puntuale dei diversi utilizzi
del filo (ricostruzione che pure è presente nel libro), quanto piuttosto "cogliere
quelle occorrenze del filo spinato che hanno chiare e significative implicazioni
politiche". Genealogia appunto, cioè storia del presente di un dispositivo del
potere: ed è infatti al presente del filo spinato in quanto materializzazione di una
"gestione politica dello spazio" che Razac finalizza anche le sue pagine di
analisi storica. Le occorrenze che Razac descrive permettono di ricomporre una cartografia
di questo apparato di sicurezza il cui leitmotiv è nella sua economicità.
Parliamo qui ovviamente di un'economia di potere. Il filo spinato rappresenta
efficacemente l'adattabilità dei dispositivi di potere al mutare delle circostanze
politiche e sociali su cui si inscrivono. "Recinzione", "trincea" e
"perimetro": queste le occorrenze storiche del filo spinato su cui Razac si
sofferma nella prima parte del libro.
In principio strumento utilizzato dai coloni americani per la recinzione dei campi
occupati nel West americano ai danni delle popolazioni indiane, il filo spinato riappare
durante la Grande Guerra come trincea, come "difesa accessoria" posta a presidio
del fronte di guerra. La terza occorrenza vede invece il filo spinato come perimetrazione
del campo di concentramento nazista: violento confine cioè fra l'esterno e quell'interno
in cui la "nuda vita" descritta da Giorgio Agamben è interamente esposta.
Olivier Razac dimostra consapevolezza del fatto che le funzioni di volta in volta
attribuite a questo dispositivo di potere sono in qualche modo sovrapponibili e fra loro
collegate. Il filo spinato che recinge i campi del West americano rappresenta infatti
anche una trincea contro le popolazioni indiane, raffigurandone plasticamente il
contenimento, il respingimento e infine il genocidio. Così come a sua volta il perimetro
del campo è nuovamente la "recinzione" della nuda vita, la delimitazione di
quella soglia al di là della quale tutto diventa possibile.
L'autore articola abilmente la sua genealogia fra rappresentazione dell'estrema dimensione
plastica del potere ed evocazione di un universo simbolico di cui il filo è immagine
potente: "da solo il filo spinato basta a evocare il campo di concentramento o di
prigionia e in generale l'oppressione. E' diventato un simbolo, condensa in una evocazione
grafica o testuale schematica un insieme di raffigurazioni che lo superano in quanto
semplice oggetto".
Questa genealogia si salda efficacemente al presente della "gestione politica dello
spazio" nella seconda parte del libro, dove l'autore si interroga sul destino attuale
del filo spinato in quanto dispositivo di definizione dei territori del potere: è qui che
il lavoro di Razac ci offre una preziosa analisi critica delle dinamiche attuali del
controllo. L'autore situa correttamente l'emergenza del filo spinato nel contesto di quel
divenire biopolitico del dominio descritto da Foucault: il filo spinato appare infatti,
nella sua originaria funzione di recinzione dei campi dei coloni americani, come strumento
in grado di difendere una proprietà produttiva dalle minacce esterne. La dimensione
biopolitica del filo spinato si condensa qui nella sua capacità di tenere lontane dai
campi coltivati le mandrie degli allevatori senza però ferirle, senza cioè pregiudicarne
la produttività. "Respingere l'esterno" e "preservare l'interno": è
questa la valenza biopolitica del filo nella sua apparizione originaria. Ma d'altra parte
non sfugge a Razac la progressiva inversione di questa caratterizzazione biopolitica: le
due occorrenze storiche successive (trincea e campo di concentramento nazista)
testimoniano infatti di una radicale mutazione nell'essenza stessa del filo spinato.
Questo cessa di costituire un dispositivo di respingimento dell'esterno e di preservazione
dell'interno per diventare invece strumento di delimitazione di un "dentro"
rispetto a un "fuori" continuamente mutevoli e ormai fra loro fungibili: il filo
spinato diviene cioè pura delimitazione, "soglia" fra diversi regimi di potere
sulla vita e sulla morte. Fino al momento in cui ciò che è perimetrato dal filo spinato
concretizza l'"esterno", il non-luogo in cui la biopolitica si perverte in
tanatopolitica, potere di "far morire e lasciar vivere".
Il presente assiste alla scomparsa del filo spinato. Esso scompare dal nostro paesaggio
quotidiano perché "ogni uso politico del filo spinato presenta un costo politico,
tanto più elevato quanto più il simbolo è fortemente percepito e la sensibilità
pubblica nei confronti della violenza politica o sociale è acuta". Ma a ben guardare
il filo spinato non scompare realmente. Al limite adotta sembianze diverse, o addirittura
si spoglia di qualsiasi sembianza per assumere i contorni indefinibili delle barriere
immateriali che delimitano discretamente, invisibilmente e impercettibilmente i territori
metropolitani: metal detector, telecamere a circuito chiuso, interfacce d'accesso.
Nuovamente, secondo Razac, l'obbiettivo è di imporre limiti all'accesso, di delineare
nuove soglie e variabili confini: questo si verifica alle porte della fortezza europea
come all'ingresso dei centri commerciali, dei parchi di divertimento tematici o dei
quartieri residenziali e delle gated communities americane.
Al sangue rappreso o ai brandelli di tessuto impigliati fra le spine di ferro si
sostituiscono ora le immagini artificiali di corpi e oggetti sondati dai raggi X durante
le "perquisizioni immateriali" che accompagnano quotidianamente la nostra
esistenza. Coloro che devono restare fuori resteranno comunque fuori: si tratti delle
popolazioni migranti o dei "dannati della metropoli", dei soggetti a rischio o
dei nuovi poveri. Questo "fuori" che non ha più bisogno di fili spinati per
essere riconoscibile a chi è "dentro" diventa sempre più "il non-luogo in
cui si produce il rovesciamento del 'far vivere' biopolitico in un discreto 'lasciar
morire' sociale o reale".
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