Corriere della sera 31 luglio 2001
IL RACCONTO / Parla il ragazzo che era accanto a Carlo Giuliani, ucciso durante l’assalto in piazza Alimonda. Lui era partito con il corteo delle Tute Bianche

«Abbiamo attaccato la jeep, il carabiniere ha perso la testa»

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA - «Io c’ero, quando Carletto è stato ucciso con un colpo di pistola in faccia. Ho visto e sentito tutto. Quel venerdì, stavo nel gruppo dei manifestanti che hanno assaltato la camionetta delle forze dell’ordine. Anch’io ho partecipato al lancio di pietre e oggetti contro la jeep. Ho visto l’arma puntata, ho sentito il carabiniere urlare "bastardi, vi ammazzo, vi ammazzo...". C’ero, e sono riconoscibile in una delle foto scattate in piazza Alimonda. In primo piano, a volto scoperto, sono quello con il casco in testa e il giubbotto salvagente. Di fianco a me Giuliani, in canottiera e passamontagna, qualche minuto prima di cadere a terra morto».
Il giovane parla in tono sommesso. Spiega la sua verità. Non accetta la tesi secondo cui il carabiniere di leva, durante gli scontri del 20 luglio, ha ucciso Carletto Giuliani per difendersi: «Potrei anche sbagliarmi, ma sono convinto che chi ha sparato non l’ha fatto per legittima difesa». E aggiunge: «Più che avere paura, credo fosse fuori di sé». Poi però ammette: «La situazione era incandescente. Dopo le ripetute cariche delle forze dell’ordine, si è scatenata una furia collettiva. Allora, non ci è parso vero di aver guadagnato il campo, accerchiando la jeep...».
Del testimone di piazza Alimonda conosciamo nome, cognome, indirizzo. Ma lui chiede di restare anonimo. Il ragazzo ci è stato presentato da un suo amico, volontario nella Comunità di San Benedetto al porto, guidata da don Andrea Gallo. «Qualora fossi identificato dagli inquirenti - afferma il testimone - sono pronto a riferire sulla morte di Carlo Giuliani, così come sto facendo ora. Di questa storia ho parlato anche con i miei genitori. I miei rapporti con loro sono buoni, anche se io abito da tempo per conto mio. Se ho paura? Sì, adesso sono impaurito».
Alto, bruno, piercing all’orecchio, ha 23 anni, genovese; padre psicanalista, madre casalinga, diploma di maturità classica, si mantiene come lavori saltuari: da lavapiatti in pizzeria, a fonico, quando lo chiamano, durante i megaconcerti. «Non peso economicamente sulla famiglia - dice -. Pago regolarmente l’affitto». Idee politiche? «Mi considero di sinistra, però non sono né iscritto né militante di nessun partito». Fedina penale non immacolata: un conto giudiziario (chiuso) per 5 grammi di hashish, che gli trovarono addosso quando aveva 17 anni; uno (ancora aperto) per lesioni a pubblico ufficiale («accadde due anni fa a Roma, non avevo pagato il biglietto dell’autobus») che gli fruttò la menzione di «persona socialmente pericolosa».
La sua storia è emblematica perché ricalca molte storie di manifestanti anti G8, compresa quella di Carletto Giuliani. Figli di famiglie per bene, spesso seguono percorsi (e disagi) individuali, non logiche di gruppo: anarchici (ma il termine è impreciso), in conflitto con il consumismo della società opulenta; autoemarginati. Il rito del «branco» esiste ma è fluttuante; si compone e si scompone nei bar, nelle piazze, nei centri sociali.
La stagione della protesta antiglobal, dell’anti G8 li ha galvanizzati. Forse perché il movimento è sufficientemente «apolitico» e trasversale. Fatto sta che, quando la piazza anti G8 chiama, loro ci sono. «Sì, per le manifestazioni di Genova, ho scelto di unirmi alle "Tute bianche" e con loro quel venerdì sono partito dallo stadio Carlini - precisa -. Credo che, con noi, ci fosse anche Giuliani. Ma io l’ho incontrato più tardi, a piazza Alimonda. Anzi, mi sono reso conto che fosse proprio lui, soltanto dopo la sua morte».
Racconta: «Che il nostro corteo fosse pacifico era sotto gli occhi di tutti. Non avevamo né bastoni né armi improprie. Eravamo, questo sì, protetti con caschi, giubbotti, scudi, ginocchiere e salva-gomiti. Io mi ero messo in quarta fila; di lato, per la precisione. Con altri, reggevo lo "striscione" difensivo di plexiglas».
Continua: «Arriviamo nei pressi di via Torino, dove già ci sono stati scontri tra polizia e gruppetti di Black bloc, che devastano, sfondano, bruciano. E’ qui che le forze dell’ordine caricano. L’elemento scatenante è la sassaiola dal ponte della Ferrovia, in fondo a corso Gastaldi. Certi figuri lanciano pietre; noi, da sotto, gli gridiamo "smettetela, smettetela"; i lacrimogeni sono già in azione. Si scatena l’inferno; i manifestanti del Carlini, nel caos, si dividono in due tronconi. E la tensione sale».
Con un disegno, spiega come lui ed altri, tra cariche della polizia e controffensive dei manifestanti, si ritrovano a piazza Alimonda, teatro della scena più tragica. Due jeep dei carabinieri si ritrovano in fondo a una strada dove si è raccolto un gruppo di dimostranti, il grosso delle forze dell’ordine in quel momento è distante. «Sì, le camionette erano due - spiega - una si sfila, resta l’altra. La accerchiamo. Ormai il clima è da battaglia. Raccogliamo da terra tutto ciò che ci capita a tiro, e lo scagliamo contro quella jeep rimasta sola. Dentro ci sono tre uomini. Qualcuno di noi riesce a sfondare il lunotto posteriore, credo con un bastone. Eravamo tesissimi, infuriati. Ma nessuno ha cercato di tirare fuori il carabiniere, nessuno lo ha tirato per una gamba, come lui ha raccontato ai magistrati. Non era possibile, non c’è stato alcun contatto fisico diretto».
«Vedo il carabiniere semidisteso nella camionetta, che punta la pistola verso l’esterno, al grido di "bastardi, vi ammazzo tutti". L’arma è puntata contro un ragazzo in grigio, che mi sta accanto; quindi si sposta verso un altro obiettivo. Continuano a piovere sassi; attorno a noi, ci sono alcuni uomini delle forze dell’ordine che non intervengono subito. "Andiamo, andiamo via, quello spara", urlo. Un attimo prima di fuggire, vedo l’estintore a terra. E’ tozzo, bombato, di colore arancione. Vedo un ragazzo che lo raccoglie; si trova a non più di due metri dalla jeep. Sento due colpi, ravvicinati; poco dopo, un terzo. Io sono in salvo, appena più in su, in una strada adiacente. Il morto giace sull’asfalto, in un lago di sangue. Scoprirò, poi, che è il mio amico Carletto Giuliani».
Marisa Fumagalli